La recente battaglia in Inghilterra contro chi porta la croce al collo è solo un episodio nel vasto panorama della battaglia contro i “simboli religiosi” in corso nel mondo “postcristiano”. Mi è capitato di assistere a un altro episodio di questa lotta in Italia, quando due anni fa il Consiglio d’Europa aveva preteso di far togliere il crocifisso dalle aule scolastiche.
Ho avuto modo di leggere sul Corriere della Sera di un nuovo scontro in questa guerra: una commissione di esperti europei presieduta da Valentina Sereni, dopo aver esaminato Dante sotto il profilo giuridico ha concluso che la Divina Commedia va tolta dai programmi scolastici perché contiene “elementi di razzismo” che costituiscono dei crimini. O, perlomeno, bisogna espungere il testo.
Sono anni che lavoro su Dante, e sono rimasta letteralmente sbalordita da questa diagnosi (razzismo!). La Commedia era già stata inserita una volta in un elenco di libri vietati, ma per un altro motivo: il suo autore si era espresso sui papi del tempo e più in generale sul potere temporale dei pontefici in termini tali da non poter essere definito che eretico. Dante è stato fra i primi a difendere l’idea della “separazione dei poteri”, spirituale e temporale: in altri termini, è uno dei padri del secolarismo. Questa concezione, che si sarebbe realizzata in Europa molto più tardi, dopo l’illuminismo, presuppone che la vita sociale sia regolata non da leggi teocratiche, ma dalle leggi universali della ragione e della morale, ritenute comuni a tutti gli uomini perché inscritte nella stessa natura umana.
L’antica accusa di eresia è stata da lungo tempo ritirata dalla Commedia. Le due chiavi del potere temporale e spirituale sono rimaste nello stemma papale, ma di potere temporale non si parla più. L’attuale richiesta di vietare Dante scaturisce per l’appunto dal secolarismo nella forma che ha assunto ai nostri giorni.
Dante viene dunque accusato di antisemitismo, islamofobia e omofobia. Il primo punto dell’accusa è motivato dal suo modo di presentare Giuda (!), Caifa, il sommo sacerdote Anna, il Sinedrio e i farisei. In realtà, Dante non ha inventato niente, non ha fatto che seguire alla lettera il racconto dei Vangeli. Ma questo non serve a giustificare il suo testo, perché i Vangeli stessi vengono dichiarati una “fonte di antisemitismo”.
L’islamofobia di Dante si vede nella sua rappresentazione di Maometto, all’Inferno tra i seminatori di discordia, dove subisce orribili e infamanti supplizi. Nell’Inferno dantesco scontano la pena anche gli omosessuali, che il poeta chiama sodomiti e di cui classifica il peccato come “rivolta contro natura”. Qui Dante incontra il suo caro maestro Brunetto Latini. Conclusione: omofobo.
A dire il vero, questo tipo di ermeneutica ricorda l’epoca sovietica, in cui tutte le opere dell’umanità venivano giudicate dal punto di vista della “lotta di classe” e si discuteva se fossero progressisti o no, mettiamo, Pindaro o Shakespeare (tra parentesi, anche Shakespeare è oggi in odore di antisemitismo, per il suo Mercante di Venezia).
Ma non si può non osservare una differenza. La dottrina comunista non era assolutamente un tipo di secolarismo, come molti da noi ritengono. Da noi il secolarismo non c’è mai stato. Il sistema sovietico era un’ideocrazia, cioè una pseudo- o para-religione. Non la “neutra” ragione universale era qui ritenuta il punto di riferimento, bensì la “teoria trionfante”. Dai cittadini leali si esigevano “fede” e “incondizionata fedeltà alla causa del partito”.
Da essi si esigeva anche un “ateismo militante”. Era un mondo di rituali collettivi (spesso mutuati dai riti della Chiesa rielaborati secondo l’ideologia), in cui i ritratti dei capi assumevano il ruolo di “icone” ed era impossibile immaginarsi un ufficio statale senza di essi. Questa para-religione aveva i suoi “martiri” e “profeti”. In essa non c’era alcun sentore di secolarismo (cioè di uno spazio libero da mitologie, riservato alla ragione).
La dottrina comunista si basava sulla “maggioranza”, ritenendo che tutte le minoranze fossero un fenomeno da sradicare. Il secolarismo difende le minoranze, invitando la “maggioranza” a cedere, in qualche modo, a favore di quanti erano tradizionalmente discriminati. Ma in questo caso sia l’una che l’altro mettono Dante all’indice (anche i comunisti lo censuravano: l’Inferno per la verità piaceva, mentre il Paradiso era un altro affare).
Davanti a fatti come il “caso Dante”, il veto ai crocifissi o a portare la croce al collo, possiamo constatare che il secolarismo sta trasformandosi in una nuova ideologia, cioè in una nuova para-religione che rifiuta recisamente di usare la ragione. La semplice ragione dovrebbe bastare a suggerire agli esperti che Dante, un “cristiano del XIII secolo”, come lui si definiva, non avrebbe potuto avere una diversa visione delle altre religioni. Che concetti molto posteriori, come antisemitismo e islamofobia, qui non possono essere impiegati. Che Dante non poteva mettere in dubbio la dottrina ecclesiale e biblica di peccato. L’ideologia, a differenza del secolarismo, com’era stato progettato, offre dei postulati eterni, che valgono per tutti e per ogni tempo. Deve necessariamente travisare i fatti, per poter incasellare nella propria interpretazione. Deve sottacere o falsificare la realtà, sia quella contemporanea che quella storica.
Noi assistiamo alla trasformazione del secolarismo in ideologia, e dopo di essa non resterà che terra bruciata. La caratteristica precipua delle ideologie è che esse non rispettano l’uomo, pretendono di decidere su tutto, fin nei particolari, al suo posto. Paradossalmente il secolarismo, che un tempo difendeva la dignità dell’uomo e la libertà di coscienza, adesso si è messo a guardare alla persona allo stesso modo: per il solo fatto che uno legga i supplizi di Maometto nell’Inferno dantesco dovrebbe diventare necessariamente islamofobo. Non viene neppure in mente che possa riflettere su quanto ha letto e trarre delle proprie conclusioni. Bisogna invece espungere questo passo pericoloso.
C’è un’altra conclusione che si può trarre dal “caso Dante” (a cui potrebbe a rigor di logica seguire il “caso Shakespeare”, il “caso Puškin” ecc.): vediamo fino a che punto fosse cristiana nei suoi fondamenti la letteratura classica europea (e russa). Non ne esiste un’altra. Quindi, per non offendere nessuno, dovremo restare senza più niente.