Un prete può non credere ai miracoli? Certo che no. Ma se i miracoli si attribuiscono a lui, se lo si chiama santo, e lo si invoca per sanare, rivelare la gloria di Dio in terra, è lecito che lui si ritiri, scappi? È la pena del contrappasso di don Alberto, teologo à la page, dissidente e modernista ai limiti dell’eresia: proprio a lui doveva toccare la persecuzione di una profetessa fanatica che crede di veder risorta, per una sua benedizione, la figlia data per morta, dopo un incidente fatale. Anche Maria Sole è cascata nell’equivoco che avrebbe rigettato con sdegno, da ragazza. Lei che rincorreva i miti sessantottardi, e inseguiva la libertà dai lacci e lacciuoli della dottrina, della morale cattolica, dedita ora a guidare una fraternità di folli di Dio, pronti a credere a tutte le apparizioni, a baciare ogni manto, bramosi di un segno.



Ma non è quello che tutti cerchiamo, non è la prova che pretenderemmo, per credere? A don Alberto bastava la presunzione del suo sapere, l’elaborazione di una teoria filosofica: che nulla può davanti ai drammi della vita, alla morte. Quando lo spediscono da Roma nel seminario di provincia, per far sbollire le sue teorie poco ortodosse, è certo di trovare discepoli proni alla sua intelligenza, quiete per le sue ricerche tese a stanare le incongruenze, le contraddizioni di una Chiesa di cui non vuol essere figlio. Troverà un anziano e benedetto sacerdote che conosce il cuore dell’uomo e il suo bisogno di grazia. Troverà tra gli allievi svogliati o ingenui o travagliati da un dolore profondo chi è pronto a cedergli e chi ha tempra per tenergli testa, per inchiodarlo a una responsabilità e una scelta.



Chi l’avrebbe detto, il quieto tran tran del seminario della Vrezza, orgoglioso di memorie antiche e sante, teatro di un suicidio eccellente, perché si tratta del figlio del personaggio più noto e facoltoso in città, oltretutto con la fama di devoto e irreprensibile capofamiglia. Ci prova un commissario di polizia imbolsito dagli anni e dalla noia a sbrogliare la matassa di una tragedia incomprensibile, a scoprire il mistero e la macchia segreta nel più immacolato degli abiti di scena. Di più non si rivela di un giallo, perché fino all’ultima pagina ogni cosa è possibile: gran guazzabuglio l’animo umano, grande commedia la vita. Può capitare che dei matti settari rinsaviscano, che i più giusti si scoprano peccatori e i peccatori, soprattutto se peccatrici, si risentano amate. Che la figlia del miracolo si innamori, come ogni ragazzina  del mondo, che ritrovi la sua verità imparando che non lei sola, ma “tutti siamo figli di un miracolo”. Può capitare che vinca la voglia di dare e chiedere perdono, e che il sangue, con cui si è aperto il romanzo, lo chiuda, e lasci espiare le colpe più gravi.



C’è posto per tutti nel romanzo di Alessandro Zaccuri (Dopo il miracolo, Mondadori). Giornalista, scrittore, poeta, padre. C’è posto per chi conosce bene gli ammicchi alle diatribe teologiche del post Concilio e per chi ama la bella scrittura, per chi si fa prendere dalla trama, per chi sente letti i suoi dubbi, le sue speranze e per chi scettico recita Pascal, il solito, quello della scommessa. Dimenticando, ci ricorda l’Autore, che Pascal ai miracoli ci credeva, e i suoi Pensieri nascono ai piedi della croce di Cristo.