L’errore riscontrato dai ricercatori che hanno eseguito l’esperimento sulla velocità dei neutrini ripropone alcuni interrogativi che certamente esulano dalla banale disputa – tutta giornalistica, peraltro – sulla bontà degli assunti einsteiniani rispetto alla perfidia dei giovani sopraffattori ottusi, riconducendo la questione allo scopo per il quale viene pensato e, in seguito, compiuto un esperimento di tal portata. Ma, soprattutto, interroga l’uomo, e dunque non il solo scienziato, su quale sia lo scopo dell’esperienza scientifica tout court e su quale sia il rapporto tra lo studio del modello e la sua sperimentabilità.
È un dato di fatto che la ricerca applicata trova oggi, infatti, una condizione più favorevole dell’indagine teorica, e i gruppi di ricerca sono – a volte – messi nelle condizioni di dover giungere a conclusioni sperimentali affrettate e non adeguatamente modellizzate. Sia chiaro: una tale propensione non si vuole in alcun modo riferirla all’esperimento di Opera – non avrei dati sufficienti per poterlo dimostrare – ma quanto meno sembra essere un difetto, di galileiana memoria, che spesso conquista anche il più rigoroso ricercatore. Eppure il grande fisico americano, Murray Gell-Mann – l’inventore dei quark – lo aveva sottolineato con forza, quando ricordava che “gli scienziati, dopo tutto, sono esseri umani, e non sono immuni dall’egocentrismo, dall’interesse economico, dal conformismo, dalla tendenza a credere in ciò che si desidera e dalla pigrizia”.
Ecco il punto: lo scienziato è innanzitutto un essere umano e come tale pre-disposto a un “certo” utilizzo della ragione e della sua intelligenza. Con questo, ovviamente, non si vuol dire in alcun modo condannare l’intera attività scientifica: anzi, lo stesso Gell-Mann ricorda come la scienza proprio dai suoi errori si solleva “al di sopra di qualsiasi abuso”. E, tuttavia, tale pre-disposizione, tale disposizione previa, originaria e naturale, denota due importanti fattori uguali e contrari: da una parte, infatti, indica il limite di ogni qualsivoglia ricerca umana, anche se, dall’altra, proprio tale limite diviene il perno su cui si fonda un dinamismo di forzatura e “sfondamento” proprio della ragione. È quanto, di fatto, hanno manifestato da un lato i ricercatori del Cern e dall’altro i vari commenti scientifici e fortemente laici, che individuavano in questo esperimento un cambiamento epocale di prospettiva, un mutamento della legge di causalità, addirittura un’innovazione che ci avrebbe finalmente liberati dal fastidio di un universo ancora troppo denso di mistero e di divino, non comprendendo – purtroppo – che questo tipo di ateismo altro non è che un panteismo a buon mercato, troppo debole per sostenere la pretesa di un Dio trascendente.
È questo l’impeto della ragione, il suo continuo “tendere a”, la sua continua corsa verso la scoperta dell’ignoto: il limite non è mai stato d’impedimento alla ricerca, e questo per la naturale propensione dell’uomo a ciò che lo trascende nell’infinitamente piccolo così come nell’infinitamente grande. “Ricerchiamo come ricercano coloro che tuttora non hanno incontrato, e incontriamo come incontrano coloro che tuttora devono cercare, poiché quando l’uomo ha terminato qualcosa, non ha fatto altro se non cominciare”, scriveva Agostino d’Ippona nel IV secolo d.C., indicando quale sia il percorso di una ragione che non vuole bloccarsi in meccanismi dogmatici e autoreferenziali, ma desidera incontrare continuamente la realtà verificandola con gli strumenti che possiede, certa di non poter possedere la verità assoluta bensì solo una sua accurata approssimazione.
La scienza – diceva John Polkinghorne – è la cartografia dell’universo. Ora nessun uomo guardando una mappa penserebbe di fare esperienza della realtà nella veridicità, ma solo nella sua verosimiglianza, nella sua rappresentazione su scala, nella sua approssimazione “accuratamente delimitata”. Così le conclusioni della scienza non potranno mai darci la verità semplice e autentica, bensì soltanto una verità necessariamente provvisoria pronta a essere messa in discussione, disponibile a essere nuovamente passata al vaglio degli esperimenti; in una parola, disponibile all’imprevisto che è sempre dietro l’angolo di un esperimento successivo.
Per tale motivo anche l’errore assume nell’indagine scientifica un ruolo strategico, poiché costituisce il momento privilegiato che ci indica da un lato l’inappropriatezza della nostra indagine, e dall’altro – quasi in controluce – ci rende più consapevoli di quale possa essere la strada da seguire: un suggerimento per il futuro cammino. Si potrebbe dire, anzi, che l’errore è un’esperienza che genera più di quello che essa stessa porta, poiché è un indicatore certo, quasi un fattore che evidenzia, a volte più di altri, il nostro rapporto con il vero.