Il 21 marzo si celebra la giornata mondiale della poesia, istituita dall’Unesco. IlSussidiario.net propone ai suoi lettori alcune poesie di Czeslaw Milosz, premio Nobel della letteratura nel 1980, contenute ne «Il secolo dell’esilio», edizione pro manuscripto pubblicata dal Centro culturale di Milano nel 1988, prefazione e supervisione di Pietro Marchesani, traduzione di Pietro Marchesani, Maria Grazia Borsalino e Annalia Guglielmi.



È di Annalia Guglielmi l’introduzione alle poesie che presentiamo.

Czeslaw Milosz nacque nel 1911 in Lituania, terra tradizionalmente multiculturale e dominata da un’atmosfera di grande tolleranza, da una famiglia di antica nobiltà. Le esperienze vissute nell’infanzia, l’atmosfera che respirò nella sua terra d’origine e le vicende storiche di cui fu testimone fin da bambino, segneranno per sempre la sua vita e la sua produzione poetica. Allo stesso modo lo segneranno le vicende della seconda guerra mondiale, dello stalinismo, cui inizialmente aderì, e poi dell’esilio, infatti lascerà la Polonia nel 1951 per farvi ritorno solo nel 1993, quando si stabilirà a Cracovia che per lui era “la città più simile a Vilnius”, e dove morirà nel 2004.



Prima della seconda guerra mondiale, Milosz seguì la corrente polacca dei cosiddetti “poeti catastrofisti”, che, spesso rifacendosi al linguaggio dei profeti del Vecchio Testamento, denunciavano la dissoluzione dell’essenza stessa dell’umanità, e con essa dell’arte e del linguaggio poetico.

Durante la guerra, i suoi versi si fecero più essenziali, meno enfatici, più tesi a comunicare direttamente il testo filosofico in essi contenuto. Buona parte della sua produzione di quel periodo è dedicata alla città di Varsavia occupata dai nazisti, dove egli trascorse quasi tutto il periodo della guerra partecipando alla Resistenza e alla vita letteraria clandestina e dove, con lo pseudonimo di Jan Syruc, nel 1940 pubblicò il volume Poesie, in cui, però, in qualche modo prende le distanze dalla poesia prettamente di guerra. Spesso, infatti, i suoi versi si soffermano a descrivere la bellezza del mondo, o il semplice fatto che la realtà, il mondo, la natura, esistono, e che, in qualunque situazione si trovi l’uomo, non possono che destare in lui stupore e commozione.



Dopo la guerra, la sua poesia divenne più intellettuale, tesa a ricostruire i valori della civiltà europea, della coscienza dell’uomo e della fede. La poesia è ora per lui una strada da percorrere per salvare il senso stesso dell’uomo, dopo la catastrofe dell’Olocausto e dei regimi totalitari. A partire dagli anni settanta, infine, nella sua poesia inizia ad essere dominante la tematica religiosa e contemplativa.

Sembra che Giovanni Paolo II, dopo aver letto le poesie raccolte sotto il titolo Sei lezioni in versi, scritte a Berkeley nel 1985, e qui presentate (I, II, V, VI), abbia detto a Milosz che nei suoi versi egli faceva un passo avanti e uno indietro, al che il poeta avrebbe risposto che non conosceva altro modo per scrivere oggi una poesia autenticamente religiosa, non nel senso del dubbio, ma in quello della drammaticità dell’esperienza di fede dell’uomo contemporaneo, che desidera incontrare un oltre, un’epifania, un confronto con qualcosa di radicalmente altro, dopo aver conosciuto l’orrore cui porta la propria pretesa di autosufficienza. E non dimentichiamo che la Polonia del 1985 stava nuovamente e dolorosamente vivendo la violenza dell’ideologia, dopo l’introduzione dello Stato di guerra del 13 dicembre 1981 e l’uccisione del beato padre Popieluszko nel 1984 da parte dei servizi segreti polacchi.

In questa prospettiva è particolarmente fuori dal comune l’esperienza religiosa di Milosz, il suo percorso drammatico, tutto teso fra il fascino della realtà e, dentro essa, la ricerca di qualcosa di permanente, di quel “ponte sopra la terra” su cui l’uomo “si avvierebbe ugualmente” anche se non ci fosse un’altra riva, per un “senso appena presentito”, in cui l’io, ogni io, si apre al noi e “ognuno separatamente sente pietà per gli altri impigliati nella carne”. 

Da «Sei lezioni in versi», 1985

LEZIONE I

Come narrarvelo? A quali cronache rimandarvi?
Immaginate un giovane, cammina sulla riva di un lago
In un mattino torrido. Brillano le libellule diafane
Sui giunchi, come sempre. Ma ancora non c’è nulla
Di ciò che doveva esserci. Capite: nulla.
O forse c’è, ma incompiuto:
Corpi destinati alle ferite, città alla distruzione,
Pene innumerevoli, ognuna diversa,
Cemento per i crematori, stati per la divisione
Assassini estratti a sorte: tu, e tu, e tu.
Sì, e aerei. Transistor. Video.
Uomini sulla luna. E quegli cammina e non sa.

Sia avvicina ad una baia, quasi una spiaggia.
Si abbronzano i turisti,
Signori e signore, annoiati, parlano
Di chi va a letto con chi, di bridge e del nuovo tango.
Quel giovane sono io. Lo fui, forse lo sono ancora
Anche se è passato mezzo secolo. Ricordo e non ricordo
Come si staccò da loro. Diverso, estraneo, estraneo.
Chiusi nella sua mente loro se ne vanno, svaniscono,
Li disprezza, lui giudice, osservatore.
Così la debolezza dell’adolescenza
Presagisce la malattia di un’era
Che non finirà bene. Gli incoscienti
Meritano di essere puniti: volevano solo vivere e nulla più.
Un’onda, pezzettini di giunco sulla ghiaia, nubi candide.
Oltre l’acqua tetti di case, un bosco. E l’immaginazione,
In essa villaggi ebrei, un treno attraverso la pianura.
Un baratro. La terra si scuote. Ma forse si scuote solo adesso
Mentre io qui apro i labirinti del tempo,
Come se conoscere significasse comprendere
E fuori dalla finestra i colibrì danzano?

Avrei dovuto. Che cosa avrei dovuto cinquantacinque anni fa?
Vivere nella gioia. In armonia. In fede. In pace.
Come se fosse stato possibile. E poi, più tardi, lo stupore:
Perché non sono stati saggi? Adesso tutto sembra
Un gioco di causa e effetto. No, anche questo è incerto.
Sarà responsabile chiunque ha respirato
Aria? Assurdità? Illusione? Idea?
Come chiunque visse là, in quel tempo, anch’io non vidi con chiarezza,
Ve lo confesso, miei giovani studenti.

LEZIONE II

Tenere madri e sorelle, moglie e amanti.
Pensate a loro. Vissero, ed ebbero un nome.
Su una calda spiaggia dell’Adriatico vidi
Allora, tra le due guerre, una ragazza così bella,
Che volli fermarla in un momento irrevocabile.
La sua snellezza chiusa in un costume di seta
(Prima dell’era della plastica) di color indaco,
O ultramarino. Gli occhi viola,
I capelli biondi, leggermente fulvi: figlia di patrizi,
Forse discendente da una stirpe di cavalieri, i passi sicuri.
I giovani biondi, belli come lei,
Erano la sua corte. Sigrid o Inge,
Proveniente da una casa profumata di sigaro, e di benessere, di ordine.

“Non andartene, pazza. Riparati nelle sculture ieratiche,
Nei mosaici delle cattedrali, nelle aurore dorate.
Rimani come un’eco sulle acque al tramonto.
Non perderti, non fidarti. Non lo splendore, non la gloria,
Ma un circo di scimmie chiama te, e il cerimoniale del tuo clan”.

Questo avrei potuto dirle. Un’essenza? Una persona?
Un’anima unica? Mentre il giorno della nascita
E il luogo della nascita, e la figura dello zodiaco
Decidono chi sarà? Se sarà sedotta dall’amore
Per le consuetudini, dalla virtù obbediente?

Tuttavia, Dante si è sbagliato. Non avviene così.
La sentenza è collettiva. Una dannazione eterna
Dovrebbe affliggere tutti loro, sì, tutti.
E forse è impossibile. Gesù ha davanti a sé
Teiere a fiori, caffè, filosofari,
Paesaggi, e i colpi dell’orologio sulla torre del municipio.
Non convince nessuno, misero, con gli occhi neri,
Il naso aquilino, gli abiti sudici
Di un prigioniero o di uno schiavo, uno di quei vagabondi,
Che lo stato giustamente cattura e allontana.

Adesso che conosco molto, devo perdonare a me stesso
Le mie colpe così simili alle loro:
Volevo essere uguale agli altri, essere sempre come loro,
Chiudermi le orecchie, non sentire la chiamata dei profeti.
Per questo la capisco. Una casa tranquilla, un giardino,
E dal fondo dell’inferno, una fuga di Sebastian Bach.

LEZIONE V

Gesù Cristo è risorto. Chiunque lo crede
Non si dovrebbe comportare come noi,
Che abbiamo perduto l’alto e il basso, la destra e la sinistra, i cieli, gli abissi
E cerchiamo di proseguire nelle auto, nei letti,
Gli uomini agguantando le donne, le donne gli uomini,
Cedendo, alzandoci, servendo il caffè,
Sprecando il pane, perché poi c’è un’altro giorno.

E un altro anno. Torna il tempo dei regali.
Gli alberi di Natale illuminati, la musica, le ghirlande.
Per noi presbiteriani, cattolici, luterani,
È dolce sulle panche in chiesa cantare insieme agli altri,
Ringraziare perché ancora siamo insieme,
Per il dono di fare eco al Verbo, ora, e nei secoli.

Ci rallegriamo perché ci hanno risparmiato le tragedie
Di quei paesi, di cui abbiamo letto, dove gli schiavi
Si inginocchiano davanti allo stato-idolo, vivono e muoiono
Con il suo nome sulle labbra, senza saper di essere schiavi.
Qualsiasi cosa accada, il Libro è con noi,
E in esso i segni meravigliosi, i moniti, i consigli
Anti-igienici, è vero, e contrari al buon senso
Ma ci sono, ed è sufficiente su questa terra muta.
Come un fuoco che ci riscalda in una grotta
Mentre fuori non c’è altro che il freddo raggio delle stelle.
Tacciono i teologi. E i filosofi
Non osano neppure chiedere:”Che cos’è la verità?”
E così, dopo le grandi guerre, nell’incertezza,
Con una specie di buona volontà, ma incompiutamente,
Ci diamo da fare con una speranza. Ma adesso ognuno
Confessi a se stesso. “È risorto?” “Non so se è risorto”.

LEZIONE VI

Una storia illimitata permane in quell’istante
In cui spezzò il pane e bevve il vino.
Nacquero, desiderarono, morirono.
Quelle folle, Dio mio! Come è possibile
Che tutti volessero vivere, e non ci sono più?

Una maestra guida una fila di bambini di cinque anni
Lungo le sale di marmo del museo.
Fa sedere i bimbi e le bimbe, ben educati,
Sul pavimento davanti ad un grande quadro.
Spiega: l’elmo, la spada, gli idoli,
La montagna, le nubi, l’aquila, il lampo.
È esperta, e loro vedono per la prima volta
La sua gola fragile, i suoi organi femminili,
L’abito colorato, le creme, E gli orpelli
Abbracciati dal perdono. Che cosa non è abbracciato
Dal perdono? La mancanza di conoscenze, la noncuranza degli incolpevoli
Chiederebbero vendetta, meriterebbero una condanna
Se io fossi il giudice. Non lo sarò, non lo sono.
Nella gloria si fa nuovo il misero attimo della terra.
Simultaneamente, ora, qui, e ogni giorno
Il pane si trasforma in corpo, il vino in sangue.
E l’impossibile e l’intollerabile
Viene di nuovo accolto, conosciuto.
Certo vi consolo. Consolo anche me stesso.
E non vi riesco del tutto. Gli alberi-candelabri
Reggono candele verdi. E le magnolie fioriscono.
Anche questo è reale. Cessa il grande rumore.
La memoria chiude le sue acque buie.
E quelli, come da dietro un vetro, guardano, tacciono.

Berkeley, 1985.

Da «Terra irraggiungibile», 1986

SULLA PREGHIERA

Mi domandi come pregare qualcuno che non c’è.
Questo lo so, che la preghiera costruisce un ponte di velluto
E percorrendolo ci innalziamo come su un trampolino
Sopra paesaggi di color oro maturo
Trasfigurati da un magico arresto del sole.
Quel ponte conduce ai lidi del Capovolgimento
Dove tutto è al contrario e la parola “è”
Disvela un senso appena presentito.
Attento, dico: “noi”. Là ognuno separatamente
Sente pietà per gli altri, impigliati nella carne,
E sa che se pur non ci fosse un’altra riva
Sul ponte sopra la terra si avvierebbero ugualmente.