Lo scorso autunno è uscito un volumetto di Alfredo Stussi, dal titolo Maestri e amici. È la raccolta di alcuni ritratti che l’autore ha dedicato nel tempo a figure esemplari nel campo degli studi, suoi o limitrofi ai suoi (Stussi è uno storico della lingua italiana e un filologo) – docenti e colleghi di cui, in circostanze diverse, ha avuto la ventura di godere il magistero e, per l’appunto, l’amicizia. La lettura del libro scioglie infatti l’ambiguità del suo titolo: non sono due categorie, i maestri e gli amici, ma una sola: coloro che furono a un tempo maestri e amici. E in più di un caso, amici in quanto maestri. Non intendo l’amicizia che può nascere, per affinità e simpatia, tra maestro e allievo, in margine alla comunione degli studi, ma l’amicizia che di questa si nutre e in questa consiste, interamente.
Ad un’allieva che si felicitava con lui, per avere raccolto intorno a sé, non ricordo più in quale occasione, “tutti i suoi scolari”, Ezio Raimondi rispose, in tono di correzione affettuosa, “mi piace di più pensare a loro come a giovani amici”. Io, che ero del gruppo, confesso di avere accolto quella battuta con qualche condiscendenza, attribuendola alla retorica della deminutio che, com’è noto, consta di affermazioni quasi sempre inattendibili. Poteva un rapporto asimmetrico e gerarchico come quello magisteriale coesistere, o addirittura identificarsi con l’amicizia, relazione simmetrica e orizzontale quanto nessun’altra? Allora mi sembrava proprio di no. Ci sono volute una discreta distanza temporale e la riflessione su di sé che ci porta l’età adulta (e più che adulta…), con i suoi bilanci di affetti veri e di cose divenute proprie per esperienza profonda del sentimento e dell’intelligenza, perché capissi che le parole di Raimondi non erano solo una cortese manifestazione di understatement, ma dicevano il vero.
L’incontro che lo studente del primo anno faceva con Raimondi, frequentando le sue lezioni, lasciava il segno. Era difficile sottrarsi alla sensazione, duplice e contraddittoria, dell’ebbrezza e dello sconforto. Da un lato, l’eloquio avvolgente, tornito in volute sintattiche che sembravano ampliarsi per perdersi e poi ritrovavano prodigiosamente la strada del loro compimento, già di per sé era una specie di sortilegio; ad esso si accompagnava il ritmo del passo (in aula Raimondi camminava sempre su e giù: mai visto una volta seduto dietro la cattedra) e il gesto della mano, come se il corpo tutto fosse partecipe dell’avventura del leggere e del commentare. Un’azione scenica, più che una lezione universitaria. Dall’altro, la vertigine, il disorientamento di chi, appena uscito dal liceo, si trovava gettato dinanzi ad un continuo squadernarsi di mondi, di prospettive critiche, di riferimenti culturali, quasi sempre distanti ed eccentrici rispetto alla sua idea di letteratura. Era un invito implicito – anche questo l’ho capito dopo – a prendere sul serio la propria ignoranza, a farci sempre i conti e, nello stesso tempo, a lasciarsela momentaneamente alle spalle, per seguire una traccia, un’ipotesi. Una versione vivificante e non paralizzante del motto anglosassone the more I learn, the less I know, insomma. Se si accettava la sfida, si cominciava a nuotare da subito in acque alte.
Accantonato lo sgomento, si stabiliva un dialogo diretto, regolato per gradi di prossimità, che Raimondi rendeva disponibili a chi ne voleva profittare. Possiamo dire che c’erano tre livelli crescenti, oltre la lezione d’ordinanza: la “controlezione”, la passeggiata, la biblioteca. La “controlezione” – così la chiamava lui stesso – era un incontro a frequenza libera, che si svolgeva il giovedì nel secondo pomeriggio, in un’aula dell’istituto (poi dipartimento) di Italianistica. Doveva durare due ore, ma in realtà si protraeva quasi sempre fin verso le otto di sera. Rispetto al centinaio di studenti delle ore mattutine, il pubblico si riduceva alla trentina, mai di più, spesso meno. Era concepita come una specie di “uno contro tutti”. Seduto sull’orlo esterno della cattedra, i piedi sul bordo di una sedia, finalmente fermo, anche per via dello spazio ridotto, benché in una posizione assai poco accademica, Raimondi rispondeva alle domande e ai problemi che gli venivano posti. Presenziavano a questi giovedì matricole implumi, che, messo da parte il timore, chiedevano chiarimenti anche di grana grossa sul corso monografico, insieme a laureandi e, in qualche caso, a giovani assistenti, che gli portavano lo stato di avanzamento dei loro lavori. Non era un seminario in senso stretto, era un’invenzione didattica (ma l’aggettivo è stento) tutta sua, con la quale intendeva riprodurre, rispetto alla liturgia della lezione frontale, quella dimensione di comunità fra maestro e allievi di cui aveva fatto più volte esperienza durante i suoi soggiorni di visiting professor nelle università americane d’élite (Berkeley, Johns Hopkins di Baltimora…), dove la contiguità logistica del campus facilita tanto più che da noi il sorgere di relazioni informali. Erano contro quelle lezioni, non solo perché invertivano l’ordine dei fattori, lasciando agli allievi l’iniziativa della prima battuta, ma anche perché realizzavano luoghi – non saprei come altro dirlo – di libertà, di aria che gira. Del resto, bastava andare una sola volta per capire che, del tutto estranee alla logica “top-down” dell’ insegnamento, quelle ore si sottraevano al lucro dell’immediata utilità: di norma, si entrava con un dubbio e si usciva con due. Molti abbandonavano; ma chi è rimasto non ha più dimenticato quel senso di vertigine intellettuale che quegli incontri ravvicinati provocavano – che era poi il senso pieno della bellezza e insieme della responsabilità cui ci mette di fronte la parola letteraria.
Nello spazio stretto e nei numeri ridotti, si cominciava ad essere prima riconosciuti di vista e poi conosciuti per nome. E nel contatto personale che si andava costruendo, si percepiva subito un’apertura di credito, come l’invito a condividere un’avventura, nel segno di una passione mai esibita, piuttosto velata di riserbo e di pudore ma non per questo meno fervida. Lo stesso rigore nell’uso del “lei”, che peraltro si estendeva anche al plurale (proverbiali i congiuntivi esortativi con cui invitava la classe attonita ad affrontare interminabili liste di letture: “provino a prender fuori…”, “si guardino…”, “vedano anche…”), mai abbandonato neppure dopo decenni di frequentazione, non sottolineava mai la distanza, ma rivelava piuttosto un rispetto profondo per l’interlocutore, una sorta di certificato di parità – una parità esigente, fondata sull’idea che si potesse fare un pezzo di strada insieme e che per farlo occorressero fiducia e serietà senza cedimenti.
Poi c’erano le passeggiate. Il discorso cominciato in un piccolo capannello che si formava fuori dall’aula, al termine degli incontri o delle lezioni, proseguiva a due o a tre con chi lo accompagnava per strada verso la meta successiva, ovunque dovesse andare, nel centro di Bologna. Ritmo da marciatore, ampio compasso delle gambe, gli si poteva stare dietro senza affanno solo perché parlava prevalentemente lui. Erano, in quei casi, più che colloqui, dialoghi a una voce sola, se si può dire così. Anticipazioni sullo svolgimento del corso, ipotesi critiche su cui stava lavorando, sintesi del libro appena scritto o recensione orale di quello appena letto – si trattava, in ogni caso, di aperture su di sé, di confidenze, in un certo senso. Era come se ti invitasse dietro lo scrittoio con lui, ma non per concedere benignamente all’allievo di sedere su uno strapuntino (“ascolta e impara!”), bensì per saggiare lui per primo la consistenza delle proprie operazioni mentali e misurarne l’efficacia al cospetto di un interlocutore. Che questi, rapito dal vortice, risultasse poi muto o a mala pena sillabante, poco importava: lo scambio si realizzava ugualmente, nella parola che, rivolta a te, si metteva alla prova e trovava nel tuo ascolto l’accertamento della propria transitività. Gli studi sulla topologia della Liberata, il commento ai Promessi sposi, con la messa in chiaro del “parlato affettivo” del romanzo come frutto delle ricerche lessicologiche del Manzoni sulle equivalenze fra meneghino e fiorentino, i grandi tracciati teorici sulla retorica e sull’antropologia della letteratura, per citare solo alcune piste del lavorìo critico di Raimondi fra fine anni Settanta e anni Ottanta, prima di finire sulla pagina erano oggetto di ripetute verifiche dialogiche, delle quali molti di noi, ben capitati, fummo chiamati a prendere parte, sotto i portici che conducevano dall’Università alla sede del Mulino o dove che fosse.
Infine la biblioteca. E qui chi pensasse alla biblioteca in senso tradizionale, si troverebbe ingannato. Voglio dire che, quando lo si andava a trovare a casa (ma qui il rapporto si era fatto più stretto, e si era nel numero dei laureati che seguitavano a lavorare con lui), lo spazio nel quale si veniva accolti non era lo studio, ma il salotto. Vero è che i libri traboccavano ovunque, ma non è questo il punto. Nell’inserto iconografico del recentissimo Le voci dei libri, ultima prova di un Raimondi che fa i conti con i testi di una vita, ci sono alcune fotografie straordinarie di lui nella penombra della sua biblioteca privata. Sono immagini che, accompagnate dalle pagine memoriali di cui sono a corredo, sembrano dire una cosa definitiva, per comprendere l’uomo e la sua esistenza fatta di incontri fecondi, con le persone e con le parole: Raimondi è la sua biblioteca. Non una bibliografia-che-cammina, come si amava dire fra di noi, quando ancora non capivamo. Una biblioteca, perché la biblioteca “è la vita, con la sua vastità, che viene presa e messa in ordine, in modo che diventi per un momento un modello attraverso il quale misurare qualche cosa della realtà”, come si legge in una di queste sue pagine; è la storia delle voci che la abitano e dell’esperienza di chi le ha interpellate e continua a dialogare con loro. Ecco perché l’incontro decisivo con Raimondi, per chi ha avuto e ha ancora la ventura di stargli vicino, è l’incontro non già nella, ma con la sua biblioteca.
Se lo si vuole, non vi si è ammessi, si è invitati ad abitarvi per un poco con lui. E la biblioteca che ciascuno di noi si è costruito per suo conto, se pure conserva inevitabilmente lo stigma dell’incrocio con la sua, tanto più vasta, rivela, nella trama di letture di cui si compone, il segno di un cammino individuale (“non c’è biblioteca di allievo di Raimondi, osservò una volta uno di noi, che contenga gli stessi libri di un’altra”), frutto di un rapporto tu a tu (anzi, “lei” a “lei”) con il maestro, unico e irripetibile, come unica e irripetibile sempre è l’esperienza dell’altro, quando si sottragga al ricatto dell’utile e non si immiserisca nella convenzione dei ruoli.
Forse, tirata qualche somma da questo un po’ erratico omaggio, verrebbe da concludere che il magistero, quando è veramente tale, lascia a chi ne ha goduto come allievo una traccia che non si perde, molto più preziosa di un debito di riconoscenza: la gratitudine per un’amicizia.
Ezio Raimondi, Le voci dei libri, a cura di Paolo Ferratini, Il Mulino, 2012