Anche per Il Circolo Pickwick (1837) il primo romanzo di Charles Dickens (1812-1870), di cui quest’anno ricorre il duecentesimo della nascita, vale la raccomandazione secondo la quale è sempre meglio leggere la prefazione soltanto dopo aver letto il romanzo, per non perdersi il bello della scoperta della trama.

Nel caso del Circolo Pickwick, bisogna tuttavia aggiungere che, anche dopo aver letto le oltre mille pagine delle quali si compone, si scopre che una trama vera e propria non appare e che la prefazione potrebbe invece risultare utile proprio per il fine a cui solitamente non è destinata (quello di scoprire se davvero c’è una trama); tanto più che (almeno nell’edizione italiana Oscar Mondadori) è firmata da uno che di trame sicuramente se ne intendeva: Gilbert Keith Chesterton (1874-1936), il grande romanziere, saggista e giallista inglese convertito al cattolicesimo nel 1922, di cui nel 2011 è uscita, per Marietti, la prima edizione italiana di Appreciations and Criticism of the Works of Charles Dickens, una raccolta di suoi scritti su Dickens da lui pubblicata nel 1911 (Una gioia antica e nuova. Scritti su Charles Dickens e la letteratura, a cura di Edoardo Rialti, Marietti 1820, Genova-Milano 2011).



Per comprendere perché questa pubblicazione costituisce un contributo importante alla comprensione non solo di Dickens e di Chesterton, ma anche della letteratura inglese vittoriana e novecentesca bisogna riprendere in mano Svelare il mistero, una raccolta di scritti di Chesterton sul giallo, pubblicata in prima edizione italiana da Gribaudi nel 2000 (Svelare il mistero, a cura di Saverio Simonelli, Gribaudi, Milano 2000). Qui Chesterton vede in Dickens il precursore (assieme a Edgar Alan Poe e a Robert Louis Stevenson) del genere del romanzo poliziesco creato a fine Ottocento da Arthur Conan Doyle (1859-1930) con Sherlock Holmes.



Se infatti, come viene spiegato nella nuova raccolta chestertoniana su Dickens di Marietti, Chesterton amò l’opera letteraria di Dickens fin da bambino, allora non è difficile cogliere tutta la portata della sua affermazione contenuta in un articolo del 1901, riportato nella vecchia raccolta di Gribaudi: a cospetto di Conan Doyle, sosteneva Chesterton, solo i personaggi di Dickens (e in particolare quelli del Circolo Pickwick) avevano la capacità, come Sherlock Holmes, di «rompere il guscio del libro così come un pulcino rompe quello dell’uovo».

Dickens, dunque, come antesignano del giallo perché fu uno dei primi a introdurre, nel romanzo, l’espediente del colpo di scena attraverso la rivelazione graduale della storia in modo tale da lasciare (all’inizio) il protagonista in disparte e da farlo entrare in modo inatteso soltanto dopo che gli elementi di contorno della trama sono stati esposti. 



Tutto questo procedimento, che rende il romanzo vittoriano di Dickens (o “alla Dickens”) sicuramente diverso (e più avvincente) rispetto ad altri suoi contemporanei italiani e francesi, significa però anche un rendere la storia più aderente alla vita e ci conduce, quindi, a parlare della fede come metodo di conoscenza, anche se la cosa (almeno a prima vista) potrebbe sembrare strana.

Ciò che infatti balza all’occhio, leggendo proprio Il Circolo Pickwick, non è la descrizione dei problemi sociali e nemmeno una visione religiosa, ma il fatto che il piacere del seguire lo svolgimento delle vicende narrate non solo non venga diminuito, ma anzi risulti accresciuto dal non sapere mai esattamente, nel corso del romanzo, il motivo per cui i componenti del “circolo”, dal suo fondatore Samuel Pickwick ai “membri corrispondenti” (Augustus Snodgrass, Tracy Tupman, Nathaniel Winkle), se ne vadano in giro per Londra e per il sud dell’Inghilterra in cerca di avventure nelle quali poi immancabilmente si imbattono, uscendone sempre (soprattutto Pickwick) trasformati.

C’è allora una domanda che solo questa comica mancanza di spiegazione riesce a tenere aperta fino all’ultima pagina di quello che Chesterton riteneva non un romanzo, ma un racconto mitologico e alla quale nemmeno Chesterton fu in grado di fornire una risposta “a buon mercato”, limitandosi a sostenere che il mistero che avvolgeva le motivazioni del signor Pickwick fosse un’alternativa allo scetticismo: «Con accompagnamento di torce e di trombe, come un ospite d’onore, il semplicione viene colto in trappola dalla vita. Lo scettico rimane invece chiuso fuori» (L’incantevole Pickwick, in Charles Dickens, Il Circolo Pickwick, Mondadori, Milano 1997, tr. it, p. XII).

Primato del fatto sull’idea, della realtà sull’utopia, del riconoscimento creaturale del limite umano sul perfettismo, di un’ultima fiducia nella realtà sulla pretesa di ingabbiarla negli schemi di una conoscenza calcolatrice e non vitale: si tratta di un modello di ragione che, già nell’ambito della filosofia inglese, aveva dato vita alla reazione contro lo scetticismo empirista della seconda metà del Seicento da parte Thomas Reid (1710-1796), attraverso la filosofia del common sense, e che, negli stessi anni di Dickens, animava la dottrina della conoscenza del Beato John Henry Newman (1801-1890), uno dei maestri ispiratori di Chesterton.

Il Circolo Pickwick, allora, non è (o quanto meno non è solo) un racconto comico e, a questo punto, si può anche dire che nemmeno le chestertoniane saghe gialle di padre Brown o di Mister Pond (quest’ultima recentemente riproposta da Lindau: I paradossi del signor Pond, Lindau, Torino 2011, tr. it.) sono soltanto racconti gialli.

È lo stesso primato della realtà sull’idea, presente in Pickwick, a fare da fondamento alle indagini di padre Brown e di Mister Pond e a introdurre la prova morale come indizio più valido rispetto alla prova oggettiva, perché facente riferimento alla totalità dell’essere umano, le cui motivazioni dell’agire, lungi dal dividersi secondo il binomio razionale/irrazionale, a volte rispondono a logiche più complesse, nelle quali non è in gioco né la logica astratta né la mancanza di pensiero, ma un modello diverso di ragione. 

Se allora padre Brown e mister Pond (e il don Matteo della nota fiction televisiva indubbiamente ispirata al modello chestertoniano) arrivano a scoprire la verità di un delitto, ciò non avviene perché hanno acquisito una quantità maggiore di informazioni rispetto alla media o perché hanno analizzato meglio il caso, ma perché hanno osservato più in profondità, accorgendosi di particolari che solo una ragione alla quale interessi il cuore umano è in grado di cogliere.

«Io do molta importanza alle idee vaghe», fa dire Chesterton a padre Brown nel racconto Lo strano crimine di John Boulnois contenuto nella Saggezza di padre Brown: «Sono sempre le cose che non costituiscono testimonianza quelle che mi convincono. Ritengo che una impossibilità morale sia un’impossibilità insuperabile».