Giulio Sapelli sembra che dica: ma di che cosa stiamo parlando, in questo momento di crisi e di futuro incerto, dove “tutto è instabile, tutto rischia di rovinarci addosso”? Il suo ultimo libro – “L’inverno di Monti”, accompagnato dal sottotitolo “Il bisogno della politica” (edito da Guerini e Associati) – è un saggio che dovrebbe essere imposto agli studenti delle facoltà italiane di Economia, soprattutto alla Bocconi, e poi lanciato dagli aerei, stile D’Annunzio, su Montecitorio e Palazzo Madama, oltre che vicino ad alcune redazioni della famosa stampa nazionale, il nostro celebre “wacht dog” all’amatriciana, nella speranza che qualcuno recepisca qualche concetto. Non possiamo avere la pretesa che gli inquilini dei palazzi italiani vogliano comprendere.
Giulio Sapelli è un grande economista, con un pregio e una marcia in più, a nostro modesto parere, di alcuni suoi colleghi cattedratici: è innanzitutto un umanista, che studia e comprende l’economia. Un umanista che conosce la storia e i classici, che sa leggere la politica e quindi, analizzando i grandi epocali fenomeni economico-finanziari, ha presente, sempre, le necessità degli uomini, delle società fatte di persone in carne e ossa. È un merito raro in un periodo di “crudeltà sociale”, dove il il bilancio, il deficit, lo stock del debito, lo spread sembrano i primi attori del grande spettacolo che coinvolge il mondo, mentre gli uomini sono comparse occasionali, oppure cavie per esperimenti di architettura finanziaria o di ultimative scelte di politica economica.
Oggi, dopo la bolla del debito privato (stimolato dalle banche) del 2008 e quella del debito pubblico del 2011, ascoltando gli economisti di cattedra e gli analisti delle grandi centrali finanziarie internazionali, viene in mente uno splendido film di Edourad Molinaro “La soupette”, dove c’è un dialogo serrato tra Talleyrand e Fouché dopo il Congresso di Vienna e il futuro della Francia. Fouché a un certo punto dice, fingendo stupore: “Ah, il popolo! Dimenticavo il popolo!”. Solo che Fouchè era cinico, ma intelligente. Mentre oggi ci sono solo dei “competenti”, cioè gli idraulici (con tutto il rispetto) di un appartamento che non hanno la visione dell’impianto complessivo di un grande condominio. Le tubature, ahinoi!, scoppiano a macchia di leopardo.
Che cosa spiega Sapelli ne “L’inverno di Monti”? In sette capitoli ricorda la specificità sociale ed economica italiana e il ricorrente “intreccio di storia nazionale e storia internazionale” dell’Italia. Scrive al proposito Sapelli: “L’intreccio tra nazione e internazionalizzazione opera sin dalla nascita dello Stato italiano e opera ancora oggi. Ma quell’intreccio non è stato culturalmente condiviso. E soprattutto esso non ha mai avuto conseguenze positive sulla crescita economica, se non meccanicamente seguendo i cicli del commercio mondiale. Piuttosto, quell’intreccio si è rivelato un intreccio predatorio sul piano di capitale fisso e intellettuale dall’Italia secolarmente accumulato”.
Giustamente, Sapelli fa capire che ci sono in giro italiani in questo periodo che ricordano l’errore fatale, bollato da Niccolò Machiavelli, del tenebroso Ludovico il Moro che, per sconfiggere i veneziani, va dai francesi e si porta così il nemico in casa. L’autore del “L’inverno di Monti” ricorda le “privatizzazioni senza liberalizzazione degli anni Novanta”. I nuovi partiti definiti “arcipelaghi”, con Romano Prodi che diventa il referente di un blocco che si mette in mente di rifare il lifting all’Italia, magari sotto la spinta interessata delle banche d’affari anglosassoni, sensibilissime alle laute commissioni. E poi l’euro, l’instaurazione di una moneta unica che costituisce “una internazionalizzazione amministrativa e monetaria a questa è ridotta l’Europa… Nessun manifesto di Ventotene)”. Una internazionalizzazione che consente alla Germania di fare un autentico take over sull’Europa, tutta allineata sulla politica di austerità per le esigenze di una Germania che, come dice il vecchio e grandioso Helmudt Schmidt: la democrazia cristiana tedesca ha tradito il messaggio dei suoi padri fondatori e ha posto la Germania prima dell’Europa e non l’Europa prima della Germania “sia nella politica economica, sia nella politica estera”. E il tutto avviene in un quadro internazionale più ampio, dove l’unica cosa sicura è l’incertezza: “Sbaglieremmo se pensassimo che ogni analisi e ogni proposta di soluzione potesse presentarsi oggi con la serenità propria di un mondo di stabili certezze. La drammaticità dell’italica vicenda risiede nel fatto che non esiste più nel mondo un baricentro, una leadership a cui far riferimento e a cui render conto, come è tipico delle situazioni imperiali. Oggi gli imperi si sono sgretolati e si è perso il controllo delle province”.
E in una situazione come questa, con gli arcipelaghi politici italiani sbrindellati, il nostro Presidente della Repubblica pensa di uscire ricorrendo a una sorta di “dictator” romano dimidiato “ossia a metà, che ha poteri limitati perché sottoposti alla ratifica del Parlamento, che tuttavia è stato umiliato e indebolito per il modo stesso con cui è giunto al potere il nuovo governo”. I “dictator”, anche intesi come antica magistratura romana non fanno “altro che aumentare la sofferenza, che diventa disperazione”. “E’ la crudeltà istituzionale che oggi sorge all’orizzonte. Mentre nessuno si ricorda che per far finire le crudeltà occorre il realismo delle scelte politiche”.
Le banche ritornino a fare le banche, l’Italia ritorni a percorrere la strada dell’economia mista. Sono parole coraggiose, di un economista-umanista che non si cura dell’impopolarità e che sa sfidare il conformismo becero dei tempi che viviamo. Sapelli offre sino alla conclusione del suo libro una domanda di sfida intellettuale: di che cosa parliamo? “Ci si divida su queste questioni e non sulle licenze dei poveri tassisti o sulle sofferenze inflitte a dei lavoratori anziani che si ritrovano disoccupati a cinquant’anni senza potere più avere né il potere, né la pensione. La carità senza giustizia è pelosa, ma la giustizia senza carità è crudele”.