Il tema dell’alternarsi continuo in natura del giorno e della notte e nella vita umana, e non solo, del lavoro e del riposo viene ripreso da Péguy in una prospettiva che a prima vista sembra rovesciata, ma che a una lettura più meditata appare piena di saggezza.

Non mi piace chi non dorme, dice Dio.
Il sonno è l’amico dell’uomo.
Il sonno è l’amico di Dio.
Il sonno è forse la mia più bella creatura.
E io stesso mi sono riposato il settimo giorno.
Ora mi si dice che ci sono uomini
Che lavorano bene e dormono male.
Che non dormono. Che mancanza di fiducia in me.
E’ quasi più grave che se lavorassero male ma dormissero bene.
Che se non lavorassero ma dormissero, perché la pigrizia
Non è un più grande peccato dell’inquietudine
E anzi è un meno grande peccato dell’inquietudine
E della disperazione e della mancanza di fiducia in me.



Non sono parole di incomprensione dell’insonnia né di elogio della passività; il poeta le attribuisce al Padre, che Gesù definisce l’Eterno lavoratore.

Piuttosto implorano dall’uomo la piccola, ardua e imperfetta imitazione della preghiera del Signore in croce – nelle tue mani affido il mio spirito – che non a caso la Chiesa fa ripetere ogni sera a Compieta.



Proprio perché la notte è per Péguy segno quotidiano delle tenebre del Venerdì santo, egli ne riprende il significato in un insieme di concretezza e di memoria, con una forza tenera difficilmente rinvenibile in altri notturni.

O Notte, o figlia mia Notte, tu la più religiosa delle mie figlie
La più pia.
Delle mie figlie, delle mie creature colei che è più nelle mie mani, la più abbandonata.
Tu mi glorifichi nel Sonno ancor più di quanto tuo Fratello il Giorno mi glorifichi nel Lavoro.
Perché l’uomo nel lavoro non mi glorifica che per mezzo del suo lavoro.
E nel sonno sono io che glorifico me stesso per mezzo dell’abbandonarsi dell’uomo.
Ed è più sicuro, io ci so far meglio.
O mia figlia dagli occhi neri, la sola delle mie figlie che sia, che io possa dire mia complice.
Che sia complice con me, perché tu ed io, io per mezzo tuo
Insieme facciamo cadere l’uomo nelle trappola delle mia braccia.
E lo prendiamo un po’ per sorpresa.
Ma lo si prende come si può. Se qualcuno lo sa, quello sono io.



Notte tu sei una bella invenzione
Della mia saggezza.
O notte, o mia figlia Notte, tu che sai tacere, o mia figlia dal bel mantello.
Tu che addormenti, tu che avvolgi già in un’Ombra eterna
Tutte le mie creature
Più inquiete, il cavallo focoso, la formica laboriosa,
E l’uomo questo mostro d’inquietudine.
Da solo più inquieto di tutta la creazione tutta insieme.
Tu adagi l’uomo nelle braccia della mia Provvidenza
Materna.