“Mi sono caricato sulle spalle questo peso, e la schiena ha ceduto. A vent’anni siamo già tutti eroi, ci buttiamo in qualsiasi impresa, possiamo tutto, e verso i trenta siamo già stanchi, non siamo più buoni per niente. Perché, perché, spiegamelo, tutta questa stanchezza? Per altro, forse, non è questo… Non è questo, non è questo!”. Così si esprime Ivanov, personaggio protagonista del dramma di Anton Pavlovic Cechov. Parole, personaggi, situazioni, quelle dello scrittore russo, che è più che mai utile mettere a fuoco oggi: non tanto per l’indiscutibile qualità letteraria, quanto per la loro capacità di scandagliamento della condizione umana attuale. 



Il dramma dei personaggi di Cechov è infatti quello di una strutturale (e progressivamente cosciente) inadeguatezza della realtà così com’è rispetto alla statura del desiderio umano, alla “capacità” del suo ideale. Anche il subitaneo e tuttora inalterato successo di Cechov sulla pagina come sulle scene è dato, del resto, da questa sua capacità di fornire, meglio di chiunque altro, all’uomo contemporaneo la sua più intima tragedia. Come dice Treplev, protagonista del Gabbiano: “Non capisco perché sono tanto inquieto… io vagolo ancora nel caos di chimere e immaginazioni, senza sapere per che cosa e a chi questo sia necessario. Io non ho fede e non so quale sia la mia vocazione”. Parole a cui fa eco il personaggio di Astrov, in Zio Vanja: “Soltanto Dio sa quale sia la nostra vocazione”. Ed è proprio questa distanza, questa “differenza di potenziale” a costituire la natura intimamente tragica del suo teatro. Le sue figure dispiegano una parabola drammatica in cui viene svelandosi in maniera sempre più catastroficamente chiara la tragicità intrinseca alla propria condizione: “Mi pare che la verità, qualunque essa sia, non sarà mai così terribile come l’incertezza” dice Elena Andreevna in Zio Vanja. E Anna Petrovna, sempre in Ivanov, si pone una domanda struggente come quella di un bambino: “I fiori ritornano ad ogni primavera, e la gioia no?”; per poi aggiungere, poco dopo: “Comincio a pensare che il destino mi abbia truffata”. 



Emerge in questi testi tutto il tramestio di un affaticarsi privo di senso, o per un senso che continuamente sfugge, si rende inafferrabile, si delocalizza nel tempo, nello spazio, nelle idee: incapaci di vivere il presente, i personaggi di Cechov situano la realizzazione di sé stessi in un viaggio a Parigi, nella vita mondana di Mosca, nella realizzazione dell’arte o nelle chimere del progresso: fino alla definitiva mortificazione del proprio progetto. Essi si trovano a vivere una perenne e spasmodica ansia di cambiamento, senza tuttavia mai sapere quale, né con quali mezzi: “…Ma la mia anima, nonostante tutto, in ogni singolo istante, di giorno e di notte, è sempre stata colma di inspiegabili attese”, dice Trofimov nel Giardino dei ciliegi. “Sento che arriva la felicità, Anja, riesco già a vederla (…) Eccola la felicità, eccola che viene, si fa sempre più vicina, ne sento già i passi. E se noi non la vedremo, non la riconosceremo, che importa? La vedranno gli altri!”. 



Battute come queste, spogliate da tutta la loro amarezza e dal loro rassegnato sapore autoconsolatorio, hanno portato alcuni a ipotizzare una sorta di velleitario “progressismo cechoviano”. Ma neanche questo frequente ed elusivo guardare al futuro va trascurato: esso esprime in qualche modo una speranza, sia pure rassegnata e senza forma, una “nostalgia del presente” che si realizza nell’ipotizzare un orizzonte in cui le pene incomprensibili dell’oggi trovino una loro compiutezza. Così il personaggio di Savva, nell’atto unico Sulla strada maestra: “I santi erano luminosi… E capivano ogni dolore… Anche senza dirglielo, capiscono lo stesso… Ti guardano negli occhi e capiscono… E tu provi una tale consolazione dopo che ti hanno capito, come se il dolore non ci fosse stato: cancellato per miracolo!” – ricordando qualcosa che pare non potersi più realizzare, irriducibilmente collocata nel mondo del passato, o in quello altrettanto irrecuperabile dell’elegia, del sogno, dell’ideale.  

Ma attenzione: il tragico cechoviano non è dichiarato né tantomeno esplicito: sua intenzione era, piuttosto, quella di scrivere dei vaudevilles, la cui disarmante semplicità, tutta esteriore e distaccata, è dettata invece da un desiderio di rappresentare e conoscere la realtà così come essa è: “Vorreste che quando dipingo ladri di cavalli dicessi: è male rubare cavalli. Ma lo sanno tutti da molto tempo, senza che debba dirlo io. Questo è affare dei giudici. Il mio lavoro consiste nello spiegare che cosa essi sono…”, scrive egli stesso. “Mai si deve mentire. L’arte ha questo di particolarmente grande: non tollera la menzogna. Si può mentire in amore, in politica, in medicina; si può ingannare la gente, persino Dio; ma nell’arte non si può mentire”. E dirà, in una famosa lettera a D. P. Gorodeckij: “Il pubblico vuole che ci siano l’eroe, l’eroina, grandi effetti scenici. Ma nella vita ben raramente ci si spara, ci si impicca, si fanno dichiarazioni d’amore. E ben raramente si dicono cose intelligenti. Perlopiù si mangia, si beve, si bighellona, si dicono sciocchezze. Ecco che cosa bisogna far vedere in scena. Bisogna scrivere un lavoro in cui i personaggi entrano, escono, pranzano, parlano del tempo, giocano a vint… Non perché questo sia necessario all’autore, ma perché così avviene nella vita reale”. 

Tuttavia, il grande merito di Čechov non è tanto quello di aver appunto perfettamente fotografato questa banale (e a suo parere cattiva, guasta) quotidianità del vivere, quanto quello di averne intuito e catturato tutta la portata tragica. Nei suoi testi, infatti, ogni circostanza, anche la più piccola e banale, ha un’enorme potenzialità drammatica; ogni gesto, anche minimo, tenta un rapporto con la sostanza della vita. Nel teatro di Čechov, anche spostare una tazza o raccontare una barzelletta sono “un dramma” (anche e soprattutto in senso teatrale) – ogni circostanza pratica costituisce il racconto di una vita, è un dialogo incessante con il proprio destino, nell’ansia e nella costante attesa che quel destino si riveli. Perché, come dice Trofimov, ancora nel Giardino, “almeno una volta nella vita bisogna guardare la verità dritto negli occhi”. Pertanto ogni movimento, ogni pausa, ogni parola, essendo sempre in bilico tra una salvezza sempre attesa e un precipizio imminente, sono assolutamente decisivi. L’attesa della salvezza è un travaglio che non si deve “pensare” o ipotizzare, a cui non si giunge tramite un ragionamento astratto: ma che è già presente, anzi coincide con la persona stessa – essi sono quel travaglio, di esso è fatta la consistenza delle loro azioni, dei loro pensieri. 

Tutto questo è come perfettamente emblematizzato in quella che è forse la più riuscita opera dello scrittore russo: Tre sorelle. Scritto nel 1900 e messo in scena dal Teatro d’Arte di Mosca all’inizio dell’anno successivo, è un testo in cui apparentemente non accade quasi nulla. È la storia, appunto, di tre sorelle – Olga, Maša e Irina – orfane del padre generale dell’esercito, che vivono la progressiva distruzione di tutte le loro aspettative giovanili. I quattro atti, dislocati a distanza di diversi anni l’uno dall’altro, fotografano come, man mano che il tempo passa, cresce nei tre personaggi la domanda che quel tempo, forse perduto, apparentemente sprecato, acquisti un significato: “Vivere e non sapere perché volano le gru, perché nascono i bambini, perché ci sono le stelle… O si sa perché si vive, o è uno scherzo idiota”. dice Maša. E Irina, non a caso la più giovane: “Dov’è andato, quello che eravamo? Dov’è andato a finire?”. La vecchiezza non è data da una situazione anagrafica, ma dall’ammutolimento dell’attesa – senza un significato, non esiste giovinezza. Questa sembra essere l’amara constatazione che le tre sorelle acquistano nel corso del dramma. Ma è singolare, ed estremamente significativo, che il fallimento dei propri progetti e delle proprie personali aspirazioni non annichili, ma anzi esalti, ed esasperi l’attesa e il desiderio di qualcosa che dia significato al vivere, al soffrire, al morire. Al punto che Čechov così fa chiudere la scena e l’intero testo – con le parole, strazianti e bellissime, di Olga: “Oh, sorelle care, non è finita, la nostra vita! Vivremo! La banda suona allegra, festosa, e sembra che da un momento all’altro sapremo perché viviamo, perché soffriamo… Poterlo sapere, poterlo sapere!”. 

È una chiusa che sancisce, tuttavia, l’ennesimo differimento, l’estrema e forse definitiva sospensione del desiderio. Come se quel doppio, struggente “Poterlo sapere!” finale volesse chiudere quella che era invece la promessa della battuta precedente: “Vivremo”. Ed è nella distanza tra il grido di quel “Vivremo” e il sospiro di quel rassegnato “Poterlo sapere!” che si esplica la cifra del dramma, e si gioca la sfida che da Čechov si ripercuote identica – e ugualmente drammatica – nel presente di tutti.