In un recente intervento su L’Unità, Giuseppe Vacca ha ricordato il rapporto, sporadico eppure significativo, che legò Palmiro Togliatti a don Giuseppe De Luca: un confronto tra due figure assai diverse che avrebbe contribuito in qualche misura ad avviare il “disgelo” tra la Santa Sede e l’Urss durante la fase più intensa della Guerra Fredda. Ho conosciuto il pensiero di De Luca nella prima metà degli anni Novanta, occupandomi di alcune vicende della Chiesa italiana del Novecento. Posso dire che, sebbene il suo insegnamento mi provenisse attraverso la mediazione culturale di Gabriele De Rosa, Giorgio Rumi, Danilo Veneruso, Pietro Borzomati, per citare solo alcuni tra i maggiori esponenti di quella scuola storiografica, in quegli anni mi sembrò di udirlo direttamente, attraverso i suoi scritti eleganti e partecipati, soprattutto in quell’Introduzione all’Archivio per la Storia della Pietà che a suo tempo aveva rivoluzionato gli studi sulla storia della spiritualità.



Leggendo De Luca mi colpì soprattutto questa espressione: «I veri storici non si sono mai sognati di farsi della storia un atto creativo di loro medesimi, un succedaneo della religione» (Il Frontespizio, marzo 1936). In anni di ancora vivace scontro ideologico nel nostro paese, egli aveva infatti auspicato lo sviluppo di un’attività storiografica che non mirasse a “forzare” le fonti, ma si ponesse in loro ascolto con apertura e disponibilità, alla ricerca di una conoscenza dei fatti spogliata da strumentalizzazioni di sorta. Una capacità di lasciarsi provocare dalla realtà che si deve considerare, prima ancora che impostazione intellettuale, dote umana originaria del sacerdote lucano, e che gli permise, tra l’altro, di mantenere rapporti umani i più diversi per estrazione politica e sociale, come ad esempio l’amicizia – opportunamente ricordata da Vacca – con Franco Rodano, risalente al Natale del 1944.



Ancora di De Luca è d’altro canto noto l’eclettismo culturale, figlio di un’intelligenza vivida e curiosa, così come di una fede intensa e onesta, quale viene raccontata già nel primo profilo biografico dovuto a quella che fu la sua maggiore collaboratrice, Romana Guarnieri (Don Giuseppe De Luca tra cronaca e storia, 1974). Come detto,  il “prete romano” attese a diverse imprese culturali, in particolare alla promozione editoriale che lo spinse a fondare nel 1941 le Edizioni di Storia e Letteratura. Appunto la ricerca storica e la letteratura, persino l’arte cristiana si incrociavano con il suo interesse primario per l’analisi delle vicende collegate all’esperienza di fede, in favore della cui dignità scientifica il sacerdote lucano avviò un significativo processo di legittimazione, valorizzando quegli interessi di studio verso la storia del cattolicesimo tout court che in precedenza erano stati relegati nel quadro di un’agiografia superficiale e ascientifica, in osservanza di un  pregiudizio allora sostenuto soprattutto da certa impostazione storiografica vetero-marxista. Secondo De Luca, infatti, la riflessione storica dell’uomo «… onesta, reale, leale», non poteva non affrontare le manifestazioni storiche della pietà cristiana, come scrisse lapidariamente proprio nella sua Introduzione all’Archivio Italiano per la Storia della pietà (Roma 1962, p. 6): si trattò di una riflessione innanzitutto metodologica che procedendo da considerazioni sullo statuto epistemologico della storia ecclesiastica pure avanzate da Hubert Jedin e quindi Giacomo Martina, avrebbe ispirato anche le più recenti intuizioni del compianto Cataldo Naro. 



Uomo di grande sensibilità umana fu De Luca, frutto di una fede vivida e di un carattere aperto, che in effetti poteva essere avvertita anche da chi non ne condivideva affatto esperienza e principi. Certamente Palmiro Togliatti dovette così percepire questa sua forte impronta di “umanità”, su cui si sarebbe fondato un idem sentire dovuto all’aver entrambi attraversato «la grande crisi e svolta del Novecento», come il leader del Pci ammise in seguito esplicitamente nel suo ritratto del sacerdote pubblicato su Rinascita il 15 giugno 1963; quello stesso reciproco riconoscimento di umanità che indubbiamente potrebbe aver contribuito a convincere Togliatti circa l’“irriducibilità” e l’autonomia del fatto religioso, concetto di cui egli fece pubblica professione nel noto discorso di Bergamo “Il destino dell’uomo” del 1963. Anche in questa particolare posizione circa il cristianesimo si potrebbe d’altro canto ritrovare un tratto peculiare del comunismo italiano, che con la cultura cattolica italiana ha dovuto comunque necessariamente confrontarsi – innanzitutto sul piano etico –, in un rapporto assai diverso, ad esempio, da quello intrattenuto dal Pcus con la Chiesa ortodossa russa in quella medesima fase storica.

Vacca evidenzia poi opportunamente il ruolo decisivo di Rodano nell’incontro tra i due uomini, prima del viaggio di Togliatti da Kruscev nel 1961. A tale incontro, del resto, aveva già fatto esplicito riferimento Emilio Colombo, in una memoria citata nel Carteggio (1933-1962) tra Loris Francesco Capovilla, Giuseppe De Luca e Angelo Giuseppe Roncalli, edito nel 2006 dalle stesse  Edizioni di storia e letteratura, a cura di Marco Roncalli (p. 140). Ed è, in effetti, individuabile in quella conoscenza, come risulta dalle interessanti carte del capo del Pci citate da Vacca, l’origine della mossa diplomatica del leader dell’Unione Sovietica di inviare un telegramma augurale, inviato il 25 novembre del 1961 a papa Giovanni XXIII, in occasione del suo ottantesimo compleanno,  episodio indubbiamente non trascurabile nella storia delle relazioni tra Roma e Mosca.

È comunque eccessivo attribuire a questo episodio il merito dell’inizio del disgelo tra la Chiesa cattolica romana e l’Unione Sovietica, secondo quanto pure titola il citato articolo de L’Unità del 19 marzo scorso (L’incontro segreto che avviò il disgelo tra Vaticano e Urss). Se il biglietto citato da Vacca conferma da una parte indirettamente l’incidenza dei rapporti con il Pcus nell’agenda politica di Togliatti, bisogna dall’altra considerare realisticamente quale fosse l’oggettivo grado di ascolto di cui lo stesso De Luca godette presso la Santa Sede e la gerarchia. In realtà, il papa e l’episcopato italiano avevano già iniziato a pensare alla possibilità di creare un ponte con Mosca in precedenza e con una strategia più organica. Fu infatti  il card. Giuseppe Siri, arcivescovo di Genova e successivamente presidente della Conferenza episcopale italiana, il primo esponente della Chiesa a concepire e realizzare un contatto con Mosca, dopo il ventesimo congresso del Pcus nel 1956 in cui erano state denunciate da Nikita Kruscev le “purghe” staliniane.

Come ha ricordato il decano dei vaticanisti italiani, Benny Lai, innanzitutto nel suo testo fondamentale Il papa non eletto (Laterza, Roma-Bari 1993), e poi nel contributo diaristico inedito che ho avuto la fortunata occasione di pubblicare sulla rivista Mneme Ammentos (Dal Diario di Padre Damaso, pp. 109-112), il card. Siri, pure comunemente considerato un anticomunista intransigente (e comunque già in passato elogiato calorosamente dal quotidiano socialista Il Lavoro Nuovo per la sua azione di convincimento della guarnigione tedesca di Genova ad arrendersi nell’aprile del 1945), fu preso in considerazione dal Cremlino come riferimento per l’apertura di un canale con la Santa Sede, in quanto considerato come il “delfino” di papa Pio XII. Nel maggio 1956, proprio tramite i comunisti italiani, l’ambasciata sovietica a Roma aveva individuato un medico italiano dell’ospedale “Gaslini” di Genova, il professor Luigi Cartagenova, persona di fiducia in Italia del ministero degli Esteri dell’Urss, il quale prese contatto con il confessore di Siri, il padre cappuccino Damaso da Celle, per informarlo che l’ambasciata sovietica di Roma desiderava aprire un riservato dialogo con un’altissima autorità ecclesiastica.

Il frate genovese, che aveva in precedenza prestato servizio missionario in Etiopia, dopo aver svolto l’attività di cappellano di lavoro nella tipografia in cui si stampava il quotidiano comunista L’Unità, si trovava ad espletare medesimo servizio pastorale di apostolato proprio presso il “Gaslini”. Damaso del resto conosceva da tempo Cartagenova, ex partigiano comunista e membro dell’Associazione Italia-Urss di Genova, e tramite questo contatto privilegiato aveva ottenuto l’ufficioso incarico di rappresentare il presule ligure presso i diplomatici sovietici. La scelta del religioso per tale delicato incarico diplomatico originava d’altro canto dalla stima personale di Siri, come provano queste sue espressioni durante le esequie del cappuccino nel 1988: «…è straordinario, che un uomo, apparentemente così minuto, fosse in grado di dare consigli sui più gravi problemi della Chiesa. Qualche Cardinale gli telefonava tutte le sere. Io l’ho avuto al mio fianco per quarantaquattro anni e molte cose non le avrei potute fare senza il suo aiuto e spesso senza la sua ispirazione». E Siri, proprio dietro intercessione di padre Damaso, sarebbe intervenuto a favore del console sovietico a Genova, Nikolaj Timofeev, il cui figlio era stato colpito da una grave malattia.

Del cospicuo flusso diplomatico tra i funzionari dall’ambasciatore sovietico in Italia (del tutto noto, secondo la testimonianza di Cartagenova citata da Lai, sia a Togliatti che al senatore comunista Mauro Scoccimarro), pure durante la stagnazione brezneviana, vi è oggi ampia testimonianza nel carteggio tra Siri e Damaso; ne ha pure reso conto Adriano Roccucci (già autore, tra l’altro, del saggio Santa Sede, Chiesa italiana e Unione Sovietica negli ultimi anni del pontificato di Pio XII, in La moralità dello storico: indagine storica e libertà di ricerca: saggi in onore di Fausto Fonzi, Rubbettino 2004), durante il suo intervento al recente convegno su Siri all’Istituto Sturzo dell’aprile 2011 (“Siri e l’Est ecclesiale”, prossimamente negli atti a mia cura che saranno pubblicati da Il Mulino). Lai ricorda, inoltre, che Siri gli confidò «dopo aver saputo ed approvato che ero stato messo al corrente delle vicende da padre Damaso – di non aver ritenuto, opportuno ragguagliare Pio XII dei contatti con i Sovietici e di averne informato Giovanni XXIII nel giugno del 1960 mentre passeggiava con il Papa nei giardini vaticani» (così ancora nel contributo Dal Diario di Padre Damaso).

È lo stesso vaticanista, del resto, a sottolineare come la data sia da tenere in dovuto conto, se non altro in quanto precede l’atteggiamento di Roncalli dinanzi ai gesti distensivi compiuti da Kruscev, a cominciare proprio dal ricordato messaggio di auguri del leader sovietico per gli ottanta anni del Papa. Secondo Lai il colloquio col pontefice si sarebbe concluso con il mandato all’arcivescovo di Genova di «proseguire nel dialogo “mantenendo socchiusa la porta”, libero di agire a sua discrezione». Siri avrebbe in seguito informato anche Paolo VI della sua azione diplomatica, per tramite del card. Amleto Cicognani, il quale richiese a padre Damaso una documentata relazione sui contatti da lui avuti e copia delle lettere scambiate con gli alti diplomatici sovietici. Bisogna infine ricordare che nel 1974 l’arcivescovo di Genova avrebbe compiuto il suo noto viaggio a Mosca, e di cui molto è stato detto durante il convegno di Genova del 2001: Vaticano e Unione Sovietica. L’azione e il ruolo del cardinale Siri.

Fu pertanto Siri a scrivere il primo capitolo di quella che sarebbe poi diventata la “Ostpolitik” di Giovanni XXIII e Paolo VI, già studiata innanzitutto da Andrea Riccardi nel suo Il Vaticano e Mosca (Laterza, Roma-Bari 1992); vicenda diplomatica di cui sarebbe stato poi protagonista il card. Agostino Casaroli, e sulla quale si possono vedere in particolare i testi curati da Alberto Melloni (Il filo sottile. L’Ostpolitik vaticana di Agostino Casaroli, Il Mulino 2006), Giovanni Barberini (La politica del dialogo. Le Carte Casaroli sull’Ostpolitik vaticana, Il Mulino 2008), e del card. Achille Silvestrini (L’Ostpolitik di Agostino Casaroli, Edizioni Dehoniane 2009).

Nel suo Diario, De Luca, il 30 novembre 1961 era tornato sul telegramma di Kruscev, definendolo un «immenso fatto»: anche se il “prete romano” non poteva probabilmente saperlo, la via era già stata aperta a Genova, ponendo le premesse per una mediazione diplomatica che nel successivo pontificato di papa Wojtyla si sarebbe posta al cuore della conclusione della Guerra Fredda, e del cui impatto gli storici devono ancor oggi offrire una piena e appropriata rappresentazione.