Riaffiora sui giornali, di tanto in tanto, il dibattito attorno al “realismo”. Maurizio Ferraris, a partire da un articolo pubblicato su Repubblica lo scorso agosto, ha rilanciato la proposta di un nuovo realismo (Manifesto del nuovo realismo, 2012). Che cosa si intende per realismo? Nel linguaggio della filosofia per realismo si intende una teoria secondo cui le ragione umana può conoscere la realtà: cioè le cose, il mondo.



Ma perché mai verrebbe in mente di dubitare che la ragione umana abbia questo potere di conoscere? Un dubbio del genere è nato e nasce dal fatto che la ragione umana spesso sbaglia, ci fa credere che le cose siano in un modo ed invece sono in un altro. Ciò avviene sia per la limitatezza intrinseca della ragione, sia per un altro limite che è dato dal tempo, dalla storia, che è l’aspetto del cambiamento nella struttura dell’umano. Il tempo e, quindi, umanamente, la storia, producono un cambiamento nelle nostre opinioni e un cambiamento negli scenari della nostra esperienza e dei nostri giudizi. Ne deriva l’importanza centrale della interpretazione, cioè del senso che diamo noi agli enti e agli avvenimenti, senso che è come “attaccato” ad essi in modo inaggirabile.



Questa centralità della interpretazione ha sviluppato, nella modernità e poi nella post-modernità, un senso critico, in altre parole una non acquiescenza rispetto ad una concezione della realtà ingenua (cioè non avvertita di cause nascoste) ed a giudizi imposti da poteri assoluti e dittatoriali. Ma oggi – afferma Ferraris – non è più così. “L’avvento dei populismi mediatici ha fornito l’esempio di un addio alla realtà per niente emancipativo, senza parlare dell’uso spregiudicato della verità come costruzione ideologica e ‘imperiale’ da parte dell’amministrazione Bush, che ha scatenato una guerra sulla base di finte prove dell’esistenza di armi di distruzione di massa”. La libertà di interpretazione sembra perciò impotente ad arginare l’oppressione e il male.



Si tratta, dice Ferraris, di arretrare, di riguadagnare una “realtà” precedente alla “costruzione  sociale” di essa. Sembrerebbe un appello a ritornare alla “natura”,  à la Aristotele o à la Rousseau, ma non è esattamente così.

Roberto Esposito è intervenuto recentemente su Repubblica. Da un lato egli loda il “realismo modesto” di Ferraris che non si limiterebbe ad una mera apologia dell’esistente, ma spronerebbe a liberarsi da rappresentazioni del sociale senza fondamento. Dall’altro lato Esposito contesta che il rischio dell’interpretazione e l’azione del desiderio funzionino, per così dire, “a ruota libera”: il desiderio, e il pensiero che lo sostiene, scaturisce da una radicale mancanza che implica, come sua struttura, la legge e il limite. 

Il desiderio non è la dinamica che apre semplicemente al soddisfacimento ( immediato e senza banco di prova) ma implica, strutturalmente, come Lacan insegna, una castrazione e un’accettazione del limite. Il desiderio è proprio ciò di cui noi manchiamo, in questa società, perché supini di fronte ad un rappresentazione perversa del desiderio.

L’altra critica rivolta da Esposito riguarda il presunto superamento della”svolta linguistica”. Il realismo, per quanto nuovo, ne è davvero il superamento? O non ne è che lo spostamento sull’altra sponda, in una dinamica in cui le cose stesse, secondo la tesi già di Nietzsche, sono infarcite di interpretazioni? Cose e interpretazioni, mondo e soggetto non sono piuttosto parti di un movimento più originario che li avvolge e li genera? Afferma Esposito: “Il pensiero non soltanto nasce dentro una determinata realtà, ma a sua volta produce realtà. Non possiamo concepire il pensiero come un soggettivo che si oppone ad un oggettivo, ma come una struttura della “vita” (queste tesi sono sviluppate nel suo recente volume Pensiero vivente. Origine e attualità della filosofia italiana,2012).

Continuo a citare: “Non esiste un soggetto unico, contrapposto al proprio oggetto. Il confronto, ed anche lo scontro, che insieme unisce e divide gli uomini,verte sulla relazione insolubile di realtà e pensiero, natura e storia, tecnica e vita”.

Rispetto a questi problemi, ovviamente aperti, si tratta, propone Esposito e mi sembra giusto dargli ragione, di aprire una discussione “franca e vivace”, anche a partire dalla sollecitazione del Manifesto di Ferraris. Corriamo oggi il pericolo che la difficoltà di scorgere punti di riferimento credibilmente “veritativi”, “e la conseguente esposizione ad un mero “nichilismo”, ci induca ad abbracciare un realismo necessariamente più rinunciatario, cioè la resa ad una gestione pragmatica  delle cose e dei legami sociali, senza rischio e senza desiderio.