Noi ricercatori e professori universitari che abbiamo dedicato tutta la vita allo studio, all’approfondimento e alla trasmissione del sapere, siamo abituati a pensare che i nostri lavori posseggano un valore speciale. Senza osare dirlo troppo apertamente, noi spesso crediamo che il mestiere di ricercatore o di studioso universitario sia più di un mestiere come gli altri. Siamo confortati in questa idea dall’ambiente al quale apparteniamo, un ambiente che condivide una sorta di culto della scienza, della conoscenza e dell’intelligenza. Questo culto della scienza è e comprende quello di un certo numero di figure storiche divenute leggendarie, che hanno testimoniato in modo particolarmente impressionante la ricerca multisecolare del sapere.
Tuttavia, il nostro orgoglio e la fiducia in noi stessi restano feriti quando ci rendiamo conto che la maggior parte delle persone al di fuori dell’ambiente accademico manifesta, attraverso parole o comportamenti sprezzanti, di non accordare grande valore alle nostre conoscenze, e comunque di non considerare la ricerca della conoscenza come necessaria per vivere bene. Al contrario, sono molte le persone al di fuori del mondo universitario, per i quali la vita accademica, cioè la vita spesa al servizio della conoscenza, non è la vera vita.
D’altronde, anche molti universitari sono a volte presi da un simile dubbio. Quando degli universitari osano mettere in discussione, almeno in parte, il valore della scienza e della conoscenza, o semplicemente i punti di vista dominanti negli ambienti accademici e scientifici, questo provoca nei loro colleghi reazioni cosi vive che ognuno, nella suo intimo, è portato a dubitare di ciò che sta facendo e della direzione che la sua vita ha preso.
È pertanto naturale che gli universitari si confrontino con queste domande fondamentali, che meritano davvero di essere poste: la ricerca e la trasmissione della conoscenza sono assurde? È assurdo dedicare la vita, che è breve, allo studio austero di una particolare disciplina, cioè ad una conoscenza necessariamente molto parziale? Oppure tutto ciò ha un senso?
In primo luogo, ci possiamo chiedere come la nostra vita ha gradualmente intrapreso questa strada. Come e perché siamo diventati studiosi, matematici, scienziati, ricercatori e professori in tutte le branche del sapere?
Se ci pensiamo, ci rendiamo conto rapidamente che è prima di tutto per ragioni sociali che, nel corso degli anni, abbiamo orientato la nostra vita al servizio della conoscenza. Fin dall’infanzia, abbiamo frequentato le scuole e abbiamo consacrato al lavoro scolastico una parte importante del nostro tempo. Questo implica l’esistenza e la diffusione universale dell’istituzione chiamata scuola, per la quale si attivano nel mondo milioni di insegnanti e professori e alla quale le società e gli stati destinano ingenti risorse. In secondo luogo, ma in modo altrettanto decisivo, la maggior parte di noi è cresciuta in famiglie in cui l’apprendimento, lo studio e lo sviluppo dell’intelligenza, erano considerate cose di grande valore. Una convinzione alla quale, quando fosse quella dei nostri genitori e dei nostri antenati, abbiamo aderito molti anni prima di diventarne consapevoli. Una convinzione che è entrata in noi come l’aria che respiriamo e che ha accompagnato la crescita e la maturazione della nostra personalità.
Più tardi, siamo stati accolti nel mondo universitario accademico, prima come studenti, poi come docenti e ricercatori. Ciò implica che esistano delle università e che sia socialmente riconosciuto e apprezzato il fatto di andarci a studiare, e che queste università siano dotate di risorse adeguate perché moltissimi giovani vi studino in condizioni dignitose ed intere società di professori vi trovino i mezzi per vivere bene e i segni tangibili del valore riconosciuto del loro lavoro. È rimarchevole il fatto che una nazione come gli Stati Uniti, dominata dal pragmatismo e dall’economia, sia orgogliosa delle sue università e vi dedichi una quantità di risorse all’altezza del riconoscimento che accorda ad esse.
Questo fatto, che è più eloquente di qualsiasi discorso sul valore conoscenza, invita ad interrogarsi sulla ragione d’essere dell’istituzione universitaria e sul senso del valore che larghi strati della società attribuiscono alla conoscenza in se stessa.
Naturalmente, milioni di famiglie si preoccupano dell’educazione dei propri figli innanzitutto perché i genitori si aspettano come ricompensa per questi studi un innalzamento sociale, un miglioramento delle condizioni di vita. Ma quest’osservazione non fa che ripercuotere la questione del valore riconosciuto del sapere dalle famiglie alla società nel suo insieme: in una società che ignori il valore della conoscenza, lo studio non permetterebbe una promozione sociale; ricercare e insegnare non darebbero i mezzi per vivere.
Si potrebbe obiettare che, con lo sviluppo sempre più straordinario della tecnica, la conoscenza è diventata una fonte di potere e ricchezza. Ma questo non spiega la nascita e lo sviluppo delle università medievali né il sorgere delle scuole filosofiche greche o dei circoli intellettuali animati dal desiderio di sapere in molteplici civiltà. Uomini si sono dedicati allo studio e alla riflessione, sono stati mossi dal desiderio di trasmettere i frutti delle loro ricerche e hanno riunito discepoli attorno a loro, molto prima che lo studio permettesse la costituzione di un nuovo potere sulle cose e sugli uomini. Ancora oggi, la maggior parte delle discipline accademiche non sono direttamente legate a tecniche di dominio del mondo.
Siamo dunque portati a riconoscere questo: la prima ragion d’essere dell’università, come di tutte le tradizioni di ricerca e di trasmissione della conoscenza e delle istituzioni che hanno incarnato tali tradizioni, è il desiderio della verità.
Viviamo in un’epoca di relativismo, dove la maggior parte delle persone sperimenta un tale disagio di fronte al concetto di verità da trovare ripugnante l’uso della parola che la designa. Questo disagio e quest’avversione sono presenti anche tra scienziati e universitari. Tuttavia, qualsiasi pubblicazione scientifica e qualsiasi insegnamento sono irriducibilmente carichi di una pretesa di verità, senza la quale non esisterebbero nemmeno. Nessun articolo di ricerca sarebbe mai letto, nessun insegnamento sarebbe mai ascoltato, nessun professore sarebbe mai assunto da una qualsivoglia istituzione, se non fosse almeno in parte riconosciuto un certo credito alla verità che portano. Se un ricercatore o un universitario non trattenesse al fondo del suo essere una fiducia irriducibile nella verità, indipendentemente da ciò che superficialmente possa pensarne o dirne, mai scriverebbe anche solo un articolo, mai dispenserebbe un insegnamento, mai comparirebbe davanti agli studenti o discuterebbe con i colleghi. Se i nostri contemporanei avessero abbandonato la verità come la maggior parte delle persone sostiene, le università, le accademie e i centri di ricerca sarebbero abbandonati e cadrebbero in polvere e rovina. Ma, costatiamolo, in realtà tutte queste istituzioni continuano ad esistere. Anzi, sono più numerose che mai. Questo significa, più di qualsiasi dichiarazione d’amore al sapere, che nonostante ciò che dicono, i nostri contemporanei non hanno rinunciato alla verità.
La parola “verità” esiste nel linguaggio innanzitutto per richiamare una realtà misteriosa che non può mai essere pienamente posseduta. È impossibile rinchiudere la verità in una qualsiasi definizione che la contenga, e tutte le idee accurate che noi possiamo formulare su di essa possono solamente avvicinarla. Ora, le idee degli uomini sulla verità guidano lo sviluppo delle differenti forme storiche delle istituzioni – scuole di saggezza, scuole di filosofia, università – fondate in vista della verità.
Passiamo in rassegna alcune idee sulla verità che sono venute in mente agli uomini nel corso della storia. In primo luogo, l’esattezza e la fattualità sono caratteri della verità. La verità si manifesta in ciò che è vero, nei fatti come sono. In questo senso, essa si oppone a ciò che è falso.
In secondo luogo, la verità si manifesta, con maggiore intensità, in ciò che è essenziale, in ciò che va al fondo delle cose. La piena verità nella sua interezza è fondamentale perché è il fondamento di ciò che è. La verità in questo senso si oppone all’apparenza, all’illusorio e anche a ciò che è secondario, derivato, o periferico. La verità sta al centro.
In terzo luogo, la verità non sta solamente al centro ma sta al cuore. Essa è ciò che può incidere, toccare nel profondo la vita e l’essere di ciascuno di noi. Si oppone a ciò che è indifferente, a ciò che in realtà non ha valore, a ciò che non è veramente capace di alimentare la nostra vita. La verità è sostanziale.
La caratteristica propria delle scuole di saggezza che si sono sviluppate nelle diverse civiltà e che fioriscono ancora oggi è di affrontare la verità nella prospettiva della vita reale. Si vorrebbe una vita buona e per questo si cerca una certa verità sulla vita che possa permetterci di vivere meglio. Si ricerca e si desidera della verità ciò che sembra rapportarsi direttamente alla nostra vita vissuta.
Le scuole di filosofia nate in Grecia erano certamente scuole di saggezza in questo senso, ma la loro caratteristica è stata quella di approfondire la seconda dimensione della verità, ossia la ricerca dell’essenza delle cose e del mondo, nonostante essa non abbia un legame sempre più tenue con la vita vissuta.
L’Università fondata dalla Chiesa latina medievale ha, fin dalla sua fondazione, sviluppato un rispetto religioso per l’esattezza e la fattualità, ritenuti valori da mantenere sempre e da applicare universalmente a tutti gli oggetti. Né il desiderio di conoscere l’essenza delle cose e del mondo, né la preoccupazione della centralità della verità o la necessità di una verità che sia rilevante per la nostra vita, doveva far venir meno la disciplina inderogabile dell’esattezza e della fattualità. Questo segno distintivo dell’Università va anche associato ad un altro suo tratto costitutivo: il modo in cui l’Università si è strutturalmente organizzata per oltrepassare sempre di più le conoscenze che essa insegna, ampliandole e approfondendole senza limiti. Tutte le scuole di filosofia, da quelle della Grecia agli enciclopedisti dell’illuminismo, hanno sognato di raggiungere il giorno in cui il sapere totale e definitivo, una conoscenza che abbracciasse il mondo intero, fosse infine stabilito. Questo sogno persiste anche nello spirito di alcuni scienziati del nostro tempo. L’Università fa invece l’ipotesi, nel suo fondamento e nella sua struttura, che questo sogno sia vano.
Il principio sui cui è fondata l’Università, e che le conferisce i suoi caratteri distintivi tra tutte le altre istituzioni che sono state create per la ricerca e la trasmissione del sapere, è tanto più sorprendente in quanto contrasta alcuni sentimenti umani forti: non pare assurdo dedicare tutta la vita per sviluppare e insegnare il sapere in un’istituzione che di fatto esiste per superare e oltrepassare questo stesso sapere? Non sembra assurdo consacrare una parte molto importante della nostra vita così breve a studiare discipline non direttamente correlate alla vita concreta, come la matematica? Non è assurdo accordare la più grande cura possibile alla conoscenza di cose perfettamente insignificanti, lontane dall’essenziale in tutti i sensi immaginabili? Questa sensazione di assurdità non ci assale alla gola, quando leggiamo i titoli di ricerche in argomenti molto lontani dal nostro, e ci sembra che quei titoli siano insignificanti e persino ridicoli, e ci rendiamo improvvisamente conto che i titoli dei lavori fanno certamente la stessa impressione a persone estranee alla nostra ricerca?
E malgrado ciò l’Università esiste: fondata nei secoli XII et XIII, non ha mai cessato di svilupparsi nel corso della storia ed è oggi una delle istituzioni più importanti in quasi tutti i paesi del mondo.
Perché? Qual è dunque l’ambito di competenza dell’Università? Da quale sorgente sgorga silenziosamente la forza che permette ai suoi membri di sormontare sentimenti umani molto forti e consacrare la loro vita allo studio minuzioso di fatti apparentemente senza pertinenza e senza rapporto con la loro vita?
Da parte mia sono persuaso che quest’ambito sia di natura teologica. L’Università nasce dalla rivelazione giudaica e cristiana nel modo in cui è stata approfondita dalla teologia cattolica medievale. Detto ciò, non parlo soltanto e nemmeno specialmente delle Università ufficialmente cattoliche, parlo dell’Università in generale. L’Università deve il suo principio alla sua gestazione in seno alla Chiesa più di otto secoli orsono.
Il principio fondante il piano universale e sistematico dell’Università e il suo “dogma” d’obbedienza scrupolosa ai fatti, principio sul quale si fonda tuttora, è limpido: è la rivelazione che Dio è il creatore di tutte le cose.
Poiché tutte le cose sono create da Dio, tutte meritano di essere studiate. Poiché tutte le cose sono create dall’unico Dio, tutte sono in relazione con l’assoluto, anche se il loro legame – e con esse quello dei loro più piccoli dettagli – con la fonte dell’essere ci è oscuro. Continuare a progredire nello studio di questo o di quell’oggetto particolare, il cui legame con l’assoluto resta nascosto, o sembra addirittura oscurarsi sempre più man mano che le conoscenze continuano a ramificarsi, presuppone che, a un livello più profondo di quello della coscienza, la comunità dei ricercatori conservi una fede indistruttibile nel credere che tutte le cose siano pertinenti.
Tutte le cose meritano d’essere studiate con la preoccupazione la più scrupolosa possibile dell’esattezza, la preoccupazione di capire le cose per quello che sono, di mettersi all’ascolto della loro verità delicata, di essere ogni giorno pronti a rimettere in discussione le immagini che abbiamo per decifrare, con una fedeltà ancor più grande, il loro linguaggio muto. Poiché ogni cosa, essendo creata da Dio, ci dice qualcosa del suo Creatore, che è infinitamente più grande di noi e che non ci inganna. Poiché tutto è stato creato dalla Parola di Dio, dal suo Verbo, tutto è Parola di Dio, parola del Verbo, parole della Parola.
Ma il Dio della rivelazione giudaica e cristiana non è solo unico e assoluto, non è solamente il Creatore di tutto ciò che è, Egli è soprattutto il nostro Creatore. A differenza delle cose, ci ha creati «a sua immagine e somiglianza» (cf. Gn, 1, 26). Lui che è il Verbo, Logos, ci dà la parola e la ragione. Il filosofo tedesco Josef Pieper, in uno studio magnifico e profondo consacrato a San Tommaso d’Aquino (1), ha mostrato che il concetto di creazione da parte del Dio della rivelazione ha in San Tommaso due corollari che sottendono tutto il suo pensiero sul mondo: prima di tutto, non vi è limite all’intelligibilità del mondo creato da Dio. In secondo luogo, questa intelligibilità della creazione è insondabile, inesauribile, infinita. Così il più grande maestro dell’Università medievale esprime la condizione della possibilità di un approfondimento illimitato della conoscenza sulla quale si fonda, fino ad oggi, l’esistenza e la struttura dell’Università.
Ma vi è di più, il Dio della rivelazione, che ci ha creati «a sua immagine e somiglianza», ha creato ognuno di noi per amore. Egli interviene nella storia collettiva e individuale com’è dimostrato sia dalla storia del popolo di Israele sia da quella della Chiesa. Egli veglia su ognuna delle nostre vite al punto che, racconta il Vangelo, «perfino i capelli del vostro capo sono tutti numerati» (Mt 10,30). L’amore del Dio della rivelazione cristiana si spinge al punto che, per la nostra salvezza, Egli ci ha donato il suo Figlio unico. Poiché è lo stesso Dio che è Creatore di tutte le cose e al tempo stesso Colui che ci ama di un amore senza paragoni, come non concludere che tutte le cose non solo sono legate all’assoluto ma anche che nessuna è indifferente per le nostre vite, che esiste un rapporto tra il segreto delle nostre vite e tutte le cose che si presentano a noi, e che tale rapporto è fondato in Dio?
Si sarebbe tentati di pensare che non sia possibile arrivare a tale conclusione che all’interno della fede, poiché il senso delle cose inerenti alle nostre vite sembra allontanarsi sempre più con l’approfondirsi senza fine delle conoscenze; allo stesso modo l’unità di tutte le cose fondate nell’unico Creatore sembra dissolversi sempre più a causa della diversificazione e della ramificazione dei saperi. Ciò nonostante, nelle Università di tutto il mondo, si continua a coltivare ogni sapere, ad approfondirlo e a trasmetterlo. Ci troviamo così a confrontarci col paradosso che la maggior parte di ciò che si fa in università non ha pienamente senso al di fuori della fede nel Dio della rivelazione giudaica e cristiana, fede che la maggioranza degli universitari non hanno o non hanno più; e questi stessi universitari che non hanno la fede continuano a ricercare e a insegnare particelle di verità come se avessero tale fede e, spesso, meglio di altri che hanno la fede.
Prestare attenzione a tutte le cose create contro l’apparente evidenza della loro futilità, portare su di esse uno sguardo che non si giustifica appieno se non per il fatto che non ci sono state date senza senso, contro l’apparente evidenza della loro assenza di interesse per la nostra vita, sono atti di grande fiducia nel Dio creatore. Sono anche atti di lode. Sì, l’università è nata in seno alla Chiesa, come istituzione votata alla lode di Dio per la Sua creazione, una lode che prende la forma di uno studio sempre più attento di tutto ciò che esiste. Nell’esatta misura in cui l’università coltiva questo studio e si attiene al suo principio fondante di rispetto scrupoloso del reale, continua a far salire verso Dio una forma di lode.
La lode e la benedizione di Dio per la Sua creazione stanno al cuore della pietà ebraica. Non è forse possibile distinguervi una ragione profonda della meravigliosa fecondità di cui danno prova, nell’ambito universitario, innumerevoli ricercatori e professori provenienti dal popolo ebraico? In ogni caso, è un fatto che ai giorni nostri il popolo ebraico sia divenuto un servitore migliore di tanti cattolici di quell’istituzione eminentemente cattolica che è l’Università. Anche se vi possiamo scorgere una manifestazione della relazione misteriosa tra il popolo ebraico e la Chiesa, tale realtà costatabile dovrebbe anche far riflettere i cattolici del nostro tempo sulla loro mancanza di fede nel Dio Creatore e sul loro poco ardore nell’innalzare a Dio la lode.
L’allusione alla fecondità così notevole di moltissimi universitari d’origine ebraica ci porta a riconoscere una doppia vocazione umana d’importanza capitale, condivisa dal popolo ebraico e dalla Chiesa: la paternità e la filiazione. Paternità e filiazione sono coltivate e vissute nel popolo ebraico nel doppio ambito della famiglia e delle comunità di studio costituite attorno ad un Rabbino che insegna; esse si ritrovano nell’università nella forma della relazione tra maestro ed allievo. Non è senza conseguenza per l’Università, nata nel seno della Chiesa, il fatto che, per la fede cristiana, paternità e filiazione hanno il loro modello in Dio. Dio è Padre come prima persona della Santa Trinità, è Figlio come seconda persona unita al padre da un amore che è lo Spirito Santo, e il Figlio ci ha insegnato a pregare chiamando Dio “Padre nostro”. La nostra epoca è traversata da una crisi molto grave della paternità e della filiazione, crisi strettamente legata a un rigetto di Dio. L’università resta fedele al suo battesimo nella Chiesa quando, mantenendo la relazione tra maestro e allievo, preserva e perpetua un’immagine e una forma di paternità e filiazione che trova il suo modello in Dio.
Per la teologia della Chiesa l’insegnamento trova la sua sorgente nella paternità divina, secondo la parola stessa di Cristo : «…tutto ciò che ho ascoltato dal Padre ve l’ho fatto conoscere» (Gv 15,15). L’insegnamento ha il suo modello in Dio, poiché il Verbo fatto carne e, nella sua vita pubblica il Cristo, vero uomo e vero Dio, ha principalmente consacrato la sua attività ad insegnare ai discepoli e alle folle che venivano ad ascoltarlo. La Chiesa, sposa e corpo mistico di Cristo, è anche detta docente e, nel corso dei secoli, una schiera innumerevole di preti e membri di congregazioni maschili o femminili hanno scelto, sull’esempio di Cristo, di insegnare piuttosto che di generare. È cosa particolarmente notevole che attualmente l’uomo che lo Spirito Santo ha ispirato alla Chiesa come scelta del proprio pastore sia un prete professore universitario.
Se è vero che il semplice fatto che Cristo abbia insegnato è determinante per l’Università nata dalla Chiesa, altrettanto determinante deve essere il contenuto dell’insegnamento di Cristo così come è stato trasmesso dai Vangeli. E poiché la ragion d’essere dell’Università è la ricerca della verità, ciò che Cristo ha affermato della verità è certamente quanto vi è di più decisivo per l’università. Ad esempio, il desiderio d’emancipazione attraverso lo studio e la conoscenza, che nel corso degli ultimi secoli ha animato così tanti professori di ogni fede e ha ispirato la fondazione di numerose scuole, non è forse derivato, anche se in un senso riduttivo, da una semplice frase di Cristo che non ha ancora smesso di risuonare nel cuore degli uomini: «la verità vi renderà liberi» (Gv 8, 32)?
Il Vangelo di Giovanni riferisce un’altra dichiarazione di Gesù che è senza dubbio l’affermazione più incredibile che sia mai stata formulata a proposito della verità. È l’affermazione di Cristo su se stesso: «Io sono la via, la verità e la vita» (GV 14, 6). Come è possibile che una determinata persona, in un preciso momento della storia abbia potuto dire: «Io sono la verità»? È concepibile che una tale affermazione abbia un senso? E qual è tale senso? Quale spostamento decisivo deve subire il concetto di verità affinché una persona, fosse anche Dio, possa identificarsi con la verità?
È chiaro che una tale affermazione non sarà mai interamente compresa dagli uomini, li interrogherà sempre, obbligandoli a rimettere in gioco le loro rappresentazioni limitate della verità. Ma anche una comprensione molto parziale di questa formula ha grandi conseguenze. Così l’identificazione che il Cristo opera nella sua persona della “via”, della “verità” e della “vita” non è estranea a due principi importanti della vita intellettuale dell’Università: prima di tutto, per tutti coloro che, in modo significativo, qualificano se stessi con la parola «ricercatori», vi è altrettanta e forse più verità nella ricerca della conoscenza, cioè nella via, che nel risultato o nelle conoscenze trovate. In secondo luogo, nella misura in cui la ricerca della conoscenza è orientata verso la verità, la vita intellettuale merita effettivamente il nome di vita.
L’identificazione inaudita della verità con la persona di Cristo segnala altresì agli universitari, che hanno spesso bisogno che questo sia loro ricordato, che il loro sapere e la loro intelligenza non sono tutto. Se la verità è una persona, le conoscenze e la ricerca non sono tutta la verità, e la vita intellettuale non è tutta la vita.
L’università nata dalla Chiesa riceve dalla Chiesa stessa il suo posto buono e legittimo, che sta in alto, ma non al di sopra tutto. Siccome l’intelligenza, che permette l’uso della ragione, è un bene di grande valore che Dio dona, il sentimento che si può avere di possederla a un grado molto elevato può far nascere una grande vanità. Una vanità tanto più pregnante tra scienziati ed eruditi che le istituzioni universitarie e accademiche l’incoraggiano con un sistema molto organizzato di onorificenze. Anche gli universitari hanno bisogno, affinché non si perdano, di ricordarsi la preghiera che il Cristo «esultando di gioia nello Spirito Santo» disse a suo Padre: «Io ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, che hai nascosto queste cose ai dotti e ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli» (Lc 10, 21).
Gli universitari hanno bisogno, come e più di tutti gli altri uomini, d’esser periodicamente ricondotti all’umiltà, madre di virtù. Tale costatazione ci induce a porci la domanda riguardo al distacco e, più profondamente, riguardo alla presenza o all’assenza della croce di Cristo nella ricerca universitaria della conoscenza.
Mi sono reso conto che questo tema è evocato almeno da un grande pensatore, la filosofa francese Simone Weil, sorella minore di uno dei più grandi matematici del XX secolo, André Weil. Nell’opera di Simone Weil, il riflesso inatteso del mistero della Croce fin nella ricerca della conoscenza prende il nome dello stare di fronte alla contraddizione (2). Simone Weil vede in quella che chiama l’apparizione della contraddizione, nelle scienze e in particolare in matematica, la verità più profonda che si manifesta nella ricerca della conoscenza. Vorrei, nell’ultima parte di questa conferenza, riprendere alcuni elementi di riflessione di Simone Weil e aggiungervi un paio di approfondimenti.
Sono, in effetti, pronto a fare l’ipotesi che l’impresa medievale dell’Università, proseguita di epoca in epoca fino ad oggi, sarebbe stata impensabile senza la conoscenza della Croce di Cristo, che comprende in un certo senso una forma di partecipazione a quella croce, e che è sostenuta dalla speranza della Resurrezione.
Il confronto con la verità dei fatti, l’obbedienza alle cose come sono, la docilità al reale, dunque la rinuncia a se stessi e ai propri sogni immaginari per arrendersi alla verità, costituiscono, l’abbiamo detto, il principio fondante e la regola costitutiva dell’Università. Un ricercatore universitario è, nella misura in cui si rende degno di questo nome, un uomo che accetta di essere guidato dai fatti là dove non avrebbe voluto né immaginato di essere condotto. Di proposito riprendo qui le parole con cui Cristo avverte Pietro, il principe degli apostoli: – «un altro ti cingerà e ti condurrà, dove tu non vorrai» (Gv 21,28) – dopo che, per tre volte, Pietro aveva professato il suo amore per Lui. Un ricercatore prende d’assalto i fatti, tenta anzitutto di ottenere che essi obbediscano al sue idee preconcette, ma i fatti gli resistono con una durezza più forte del diamante e la volontà del ricercatore, sfinita dopo così tanti assalti lanciati invano, finisce per spezzarsi. È solo a questo punto che lo spirito del ricercatore, che la prova ha reso un po’ più ricettivo alla verità, può infine accettare di inchinarsi di fronte ai fatti quali essi sono, lasciarsi condurre da essi e di diventare il tramite di una verità più sottile e più bella, mai intravista prima, che non viene da lui. Questa esperienza è una esperienza che ogni vero ricercatore conosce. È per renderla possibile e per ripeterla sempre più in profondità che l’Università è stata fondata nove secoli fa, che si è sviluppata generazione dopo generazione e che esiste ancora oggi.
La prova della contraddizione di fronte al reale è duplice: è una prova nel contempo per la volontà e per l’intelligenza. Non solo le cose rifiutano di piegarsi alla nostra volontà, ma oppongono alla nostra intelligenza una lunga resistenza e infine si arrendono ad essa, ma solo parzialmente, solo dopo immensi sforzi, di cui, a posteriori, non si capiscono il perché e la necessità. Si dedicano per esempio molti anni di fatica per tentare di capire un solo punto, e quando infine appare una piccola luce, si capisce che tutti i tentativi infruttuosi che si erano fatti erano troppo complicati e che le cose attendevano di essere percepite nella loro semplicità. Ci si dice allora che la nostra intelligenza deve veramente essere contorta per essere rimasta cieca così a lungo.
La semplicità e lo splendore della verità possono apparire nella loro bellezza risplendente non solo dopo anni, ma dopo secoli di sforzi perseguiti di generazione in generazione. Questa esperienza che già abbiamo porta naturalmente a credere che alcune questioni scottanti che si pongono oggi potrebbero cominciare a chiarirsi per l’intelligenza solo dopo millenni di vita universitaria. Ciò domanda ai ricercatori immersi nella notte, individualmente e collettivamente, di non scoraggiarsi.
Esiste una notte della ricerca della verità nelle conoscenze per ogni problema posto, per ogni argomento di ricerca, per ogni scienza e anche per l’impresa universitaria nel suo insieme.
Vorrei per finire evocare la tripla notte della verità che caratterizza la situazione dell’Università dopo otto o nove secoli di esistenza: la notte della foresta sempre più fitta e inestricabile dei saperi, la notte dell’impersonalità e dell’impassibilità delle cose per come sono descritte dai saperi, la notte delle apparenti contraddizioni tra i saperi. Notti tanto più pericolose perché toccano la ragion d’essere dell’Università e la mettono alla prova nei suoi fondamenti.
L’abbiamo detto, l’Università e il suo piano di studio di tutte le cose sono stati fondati sulla convinzione che ogni cosa è in rapporto con l’assoluto perché tutte le cose sono create dal Dio unico e vero. Ora, la lunga storia della ricerca universitaria nelle sue molteplici discipline ha come corollario che l’unità della verità e della conoscenza nell’ordine intellettuale – unità la cui percezione era stata il presupposto della fondazione dell’Università medievale – è oggi persa di vista. L’espansione sempre più impressionante e schiacciante delle conoscenze ha allontanato gli uni dagli altri i loro rispettivi campi, fino a frantumare la percezione originale dell’unità del sapere e della verità stessa. Il principio di quest’unità è fortunatamente mantenuto nell’organizzazione contemporanea della maggior parte delle università del mondo, che contano facoltà di tutte le discipline scientifiche e letterarie, ma occorre riconoscere che, in seno ad ogni università, le diverse facoltà specializzate si ignorano vicendevolmente. Gli universitari paiono essersi adeguati a questa situazione al punto che i rappresentanti di una disciplina vedrebbero di cattivo occhio quelli di altre discipline che si permettessero di intervenire nel loro campo. Ogni facoltà pare tenere gelosamente alla propria autonomia, vissuta in pratica come una sorta di indipendenza paradossale nell’ordine della verità.
Ciò non deve tuttavia nasconderci il fatto che la frantumazione dei saperi è per l’Università e per ogni ricercatore una vera e propria tragedia. Perché il sapere non ha più un centro, ogni universitario può legittimamente provare il sentimento di essere perduto nella notte nera e, nel segreto del suo cuore, in verità, prova questo sentimento. Nel suo disorientamento, egli può essere tentato di ricorrere a diverse scappatoie: per esempio, fare lo sforzo di persuadere se stesso che la sua scienza è il centro della verità, che le altre scienze gli sono subordinate e che, se i rappresentanti di queste altre scienze non lo riconoscono è per mancanza di buona volontà da parte loro. Oppure, può cambiare il senso di alcune parole, chiamare “ricerca fondamentale” quella condotta senza occuparsi delle sue applicazioni dirette e dimenticare che questa espressione significa propriamente ricerca del fondamento delle cose, ricerca della fonte dell’essere e delle essenze, ossia una ricerca che egli dispera sia possibile.
Ma è impossibile mentire completamente a sé stessi. Tutti gli universitari, nel loro intimo, sanno bene che oggi sono nella foresta oscura dei saperi. Ed è ancora più notevole il fatto che, individualmente e collettivamente, un gran numero di essi non soccomba allo scoraggiamento e persista nella ricerca e nel servizio della verità disseminata nel campo infinito delle conoscenze. Ciò significa che la piccolissima fiamma della speranza continua a bruciare silenziosamente nel loro cuore: speranza che un giorno la foresta dei saperi si diraderà e che la verità apparirà nella gloria della sua unità finalmente manifesta.
La notte dell’apparente sparizione del centro della verità è raddoppiata dalla notte dell’impersonalità radicale delle cose e della totale indifferenza a noi che esse manifestano. L’Università ha voluto studiare tutte le cose come create da Dio, che ci ama dell’amore più grande e che ha donato il suo unico Figlio per salvarci. Ma ecco che gli oggetti del pensiero paiono non parlare che il linguaggio di marmo della logica e delle matematiche, e gli oggetti fisici, il linguaggio delle leggi più dure di tutte le leggi umane. Dalla sua fondazione, l’Università ha studiato tutte le cose come per cercare altrettante prove tangibili dell’amore infinito del loro Creatore. Ed ecco che nessuna cosa, mai, accetta di fornire tale prova. L’Università nata dalla Chiesa potrebbe riprendere, nell’ordine che gli è proprio, le prime parole del salmo 22 che Cristo stesso ha ripetuto sulla Croce in un grido: «Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato? (…) Mio Dio, il giorno io chiamo e tu non rispondi (…)».
Siamo onesti. Come credere che le cose a cui consacriamo la nostra vita, e di cui esistono miliardi e miliardi di copie simili, queste cose che non hanno bisogno di noi e di cui non abbiamo apparentemente nessun bisogno reale, sono create dallo stesso Dio che ci ama di un amore senza paragoni, quell’amore la cui prova è «dare la propria vita per i propri amici» (Gv 15,13)?
Ma siamo ancora più onesti. Ci sarebbe ancora oggi anche solo un universitario a continuare a studiare queste cose se non sussistesse in lui veramente alcuna speranza che queste cose, contro ogni apparenza, non ci sono date senza senso, che sono significative, che sono in relazione con la verità, con una verità che è la vita?
La terza ed ultima notte del sapere universitario è quella delle apparenti contraddizioni tra le scienze, per non parlare delle contraddizioni tra i saperi e il senso comune, o quelle tra le conoscenze oggettive e la sensibilità.
Ogni scienza è portatrice di una visione del mondo che è alla sua origine e che approfondisce e manifesta nel corso del suo sviluppo. E ogni scienza tende a confortare con argomenti sempre più solidi la visione che l’ha fatta nascere, a costo di far evolvere questa visione. Ora, le diverse visioni del mondo che sottintendono lo sviluppo delle diverse scienze appaiono come contradditorie tra loro. Per esempio, la fisica moderna ereditata da Galileo, Cartesio e Newton si fonda sulla convinzione che “il mondo è scritto in un linguaggio matematico”, ossia riducibile a misure fisiche che sono sottomesse a leggi che si tratta di scoprire. In altre parole, il mondo è riducibile a numeri legati da identità matematiche. Detto ancora altrimenti, esso è rappresentabile all’interno del pensiero matematico sotto forma di oggetti geometrici. Dopo molti secoli di maturazione questi principi sono sfociati in una teoria meravigliosamente bella e straordinariamente confermata dalle misure che essa permette di prevedere, ma che non distingue più lo spazio dal tempo. Ora, l’assenza di distinzione tra spazio e tempo non soltanto è contraria all’esperienza più intima che abbiamo del trascorrere del tempo, ma toglierebbe tutto il senso ad altre scienze come la biologia, per non parlare della storia. Nella notte della ragione fatta di contraddizioni apparentemente irriducibili tra scienze che hanno tutte solidi argomenti da far valere, può essere grande la tentazione, per gli universitari, di credere di fuggire alla loro notte rifiutando di vedere le contraddizioni o pretendendo di risolverle a buon mercato. Così i rappresentanti di una data scienza sono tentati di pensare che le altre scienze e addirittura le nostre esperienze sensibili, sarebbero intessute di illusioni, a cui solo la scienza cui appartengono sfuggirebbe.
Questo schema si riproduce nella drammatica relazione, o assenza di relazione, tra le scienze e il contenuto della rivelazione. Ridiciamolo ancora: l’Università è un’impresa cattolica. Essa è fondata su un sapere che è quello dato nella rivelazione. Ma il progresso delle diverse scienze non ha apportato prove sulla verità della rivelazione. Agli occhi di molti, esso le ha addirittura sottratto la sua attendibilità. D’altronde, il punto decisivo non è tanto che il contenuto di alcune scienze sembra aver contraddetto taluni contenuti della rivelazione. Piuttosto, il contenuto di queste scienze è diventato progressivamente estraneo alla rivelazione, ha dato l’impressione di non aver più nulla a che vedere con essa. Lo studio plurisecolare delle scienze ha portato alla formazione di nuovi tipi culturali, diversi da quelli dei credenti. Scienziati e credenti sono diventati quasi due umanità distinte, che si temono l’un l’altra come temono l’immagine della propria notte.
Grande fu allora la tentazione, per l’impresa cattolica che è l’Università, di pensare di uscire dalla propria notte perdendo la fede. E in effetti, la maggior parte degli universitari ha perso la fede. Ma se la fede fosse vana, l’Università non avrebbe nessun senso. E se la fede fosse totalmente perduta, non ci sarebbe più Università.
Grande fu anche la tentazione, per i credenti, di abbandonare l’Università, di disinteressarsi delle scienze in nome della fede. Ma a che vale una fede che rifiuta la notte?
Non è in nostro potere di uscire dalla notte con le nostre forze, crederlo sarebbe mentire a noi stessi. Ci è solo chiesto di restare fedeli alla verità, di cercarla nelle nostre notti, di amarla e di servirla.
(1) – Pieper Joseph, Unaustrinkbares Licht. Das negative Element in der Weltansicht des Thomas von Aquin, München : Kösel, 1963.
(2) – Vedi la mia conferenza Simone Weil e la matematica tenuta alla Bibliothèque Nationale de France il 23 ottobre 2009. Il testo, pubblicato nel numero di dicembre 2010 dalla rivista Aletheia edita dalla Comunità di Saint Jean, è disponibile sul mio sito all’indirizzo:
http://www.ihes.fr/~lafforgue/textes/SimoneWeilMathematique.pdf