«Prima dell’arresto non capivo molte cose. Ero istintivamente attratto dalla letteratura, senza capire bene cosa significasse, per me e per la letteratura. Mi tormentava unicamente il fatto che fosse difficile trovare temi nuovi per i miei racconti. Tremo al solo pensare che scrittore sarei diventato (e lo sarei diventato), se non mi avessero messo dentro». Così, sul finire degli anni sessanta, Aleksandr Solženicyn rievocava il proprio apprendistato nello splendido «saggio di vita letteraria» tradotto in italiano con il titolo La quercia e il vitello.



Aveva concepito la prima opera – un romanzo sulla rivoluzione, il grande tema della sua vita – a diciotto anni, nel novembre 1936, ma l’avrebbe portata a termine soltanto a decenni di distanza, quando nascerà il ciclo di romanzi (“nodi”) della Ruota rossa. Negli anni che precedettero il conflitto, e poi al fronte, scrisse alcuni racconti di guerra, abbozzò anche un romanzo sullo stesso tema; ben poco di queste prove giovanili si conservò dopo l’arresto avvenuto nel 1945. Si è conservato invece il giudizio che, nel 1944, ne diede un classico della drammaturgia sovietica, Boris Lavrenëv: «Che Solženicyn sia dotato per il lavoro letterario è a mio avviso indubbio, e mi vien fatto di pensare che, in circostanze tranquille, nel dopoguerra, consacrandosi totalmente al lavoro che, con tutta evidenza, ama, l’autore riuscirà a ottenere buoni risultati». In effetti, dal dopoguerra Solženicyn avrebbe ottenuto risultati straordinari, anche se avrebbe lavorato, come è noto, in circostanze di estrema durezza: «se non fossi finito in prigione sarei diventato anch’io uno scrittore sovietico (…). Furono la prigione e il lager a fare di me lo scrittore che sono oggi».



Grazie al lager Solženicyn compì la sua formazione letteraria. Anche se fino al 1947 non riuscì a scrivere, prima nelle prigioni preventive e poi nei lager speciali per scienziati, le cosiddette šaraški, poté tuttavia leggere insieme agli amati classici (Puškin, Tjutcev, Tolstoj, Dostoevskij), anche autori divenuti ormai introvabili nel resto del paese (per esempio Dos Passos, che lo colpì per il «montaggio giornalistico e il cosiddetto occhio fotografico»), poco tollerati dal regime: Pasternak (del quale in futuro non amerà il Dottor Zivago), Esenin, Blok… Scoprirà inoltre un testo che studierà con accanita passione, l’ottocentesco vocabolario della lingua russa di Dal’: «Ho letto la prefazione e mi ha incantato l’imponente, espressiva, originale lingua russa, una lingua di rara bellezza. (…) Bisogna studiare la lingua russa. Nessuno di noi la conosce, parliamo un gergo da intellettuali». Anche grazie a Dal’ Solženicyn elaborerà una prosa senza eguali tra gli scrittori del suo tempo, radicata nella storia della lingua russa, letteraria e popolare, memore della lezione dei classici della letteratura come dei maestri novecenteschi (negli anni Settanta indicherà come suoi modelli il «geniale» Nabokov, Cvetaeva e Zamjatin), e innervata, spesso in chiave polemica o ironica, dal russo contemporaneo, anche dalle corruzioni gergali e oscene del lager.



Sempre da detenuto, lesse «con grande emozione, sia perché ha riversato su di me una montagna di ricordi del fronte sia perché, per i suoi obiettivi, è un fratello del mio Sesto anno di corso» (ovvero il romanzo rimasto appena abbozzato sulla guerra) anche Nelle trincee di Stalingrado di V. Nekrasov, «un romanzo che ti conquista con l’autentica verità della guerra e si differenzia, come il cielo dalla terra, da tutto ciò che fino a oggi è stato scritto sulla guerra».

Dal 1947, prima nelle šaraški e poi nei campi di lavoro forzato, Solženicyn scrisse in ogni momento libero, o per meglio dire compose a mente, e accumulò materiale sul tema della rivoluzione (“l’aspetto più notevole, il più interessante della vita nel lager, per me, era l’opportunità che mi dava di interrogare la gente che sapeva qualcosa della rivoluzione. Accumulai materiale, sebbene non avessi la possibilità di prendere appunti”). Nei lager ai detenuti non veniva data la carta, e in generale era vietato scrivere, così egli compose a memoria i versi del lungo poema largamente autobiografico La stradina, un saggio, tre drammi, anche l’abbozzo iniziale di quello che sarebbe poi divenuto Una giornata di Ivan Denisovič. Ma nel 1948, nella šaraška di Marfino, rievocata in seguito nel romanzo Il primo cerchio, gli si presentò un’occasione unica: riuscì a mettere su carta (alcuni fogli, bottino di guerra, appartenuti a una società tedesca), oltre agli appunti dal dizionario di Dal’, il romanzo breve Ama la rivoluzione – sèguito in prosa della Stradina – che Jaca Book pubblica oggi per la prima volta in italiano, accuratamente tradotto, annotato e presentato da Sergio Rapetti.

Nel 1950 Solženicyn dovette lasciare Marfino, ma riuscì ad affidare il suo primo romanzo a una donna coraggiosa che lì lavorava, e che lo custodì per sei anni. Tornò quindi a lavorarvi per qualche tempo nel 1958, ma lasciò l’opera incompiuta; lo pubblicò solo nel 1999, insieme con La stradina, le poesie del lager e la prosa Sfregàti gli occhi, annotando: “essi furono allora il mio respiro e la mia vita. Mi aiutarono a resistere”.

Quando scrisse Ama la rivoluzione Solženicyn era ancora in parte – così come il suo protagonista dai tratti largamente autobiografici Gleb Neržin – un devoto dell’Idea, e non aveva ancora riscoperto la fede (accadrà nel 1952, nel lager di Ekibastuz; Neržin si sorprende invece a ricordare la preghiera del “Padre Nostro” quando un commilitone gli regala una galletta). Fino al 1945 Solženicyn era stato infatti «molto convinto, completamente preso dal marxismo. Ancora non capivo che, con le nostre vittorie, ci stavamo scavando da soli la fossa. Neanche ci passava per la mente che stavamo consolidando la tirannia staliniana per i trent’anni a venire». Iniziava tuttavia a nutrire profondi dubbi sulla rivoluzione: «non è che Lei / sia stata, se non non necessaria, / perlomeno prematura?..» (La stradina). Non a caso mentre era al fronte aveva scritto «un’energica critica condensata di tutto il sistema di inganno e oppressione che regnava nel nostro paese», ovvero quella «Risoluzione n. 1» che gli costò 8 anni di lager. Condannava recisamente Stalin, «il grande boss», ma non ancora Lenin.

Come Solženicyn, riformato alla visita militare Gleb Neržin accoglie con entusiasmo nelle aule universitarie di Mosca lo scoppio della guerra, ma non riesce a farsi arruolare; finalmente reclutato in un reparto di salmeria, si ritrova in marcia coi suoi sgangherati e poco entusiasti commilitoni («era il contingente degli invalidi»), diretto non verso il fronte ma verso le retrovie, non su mezzi motorizzati ma su carri trainati da cavalli, come i popoli nomadi turco-tatari che compivano le loro incursioni nell’antica Rus’ («nel breve spazio di quegli otto secoli non era insomma cambiato niente»). Impaziente di combattere per portare la rivoluzione nel mondo, Neržin riuscirà infine a lasciare le salmerie e a farsi spedire al fronte: sarà per compiere un missione, e questa volta viaggerà da solo, in treno, diretto a Stalingrado.

Ama la rivoluzione si configura così come un romanzo di formazione, nel quale l’autore, poco più vecchio del suo protagonista-alter ego, narra i fatti con partecipe ironia, mostrando come Neržin impari dapprima a insegnare, poi, una volta arruolato, a curare e amare i cavalli, a viaggiare in tempo di guerra, insomma a diventare un soldato e, soprattutto, a osservare e conoscere gli uomini nella viva realtà, dimenticando per sempre nella cartella il volume di Engels Rivoluzione e controrivoluzione in Germania, che per tutto il romanzo si trascina dietro senza mai aprirlo. Neržin impara a scorgere la realtà dietro l’Idea e i simboli, e a conoscere la pietà, ignota all’ideologia sovietica. Pietà per i cavalli: «per la prima volta … vide nei grandi animali non i simboli, dai musi bavosi, del crollo di tutte le sue mirabolanti speranze (…) bensì delle buone creature dalla vita infinitamente più dura di quella degli umani», e poi per tutti gli uomini: «sul pianale soffiava un vento gelido, talvolta carico dell’umidità del vapore e i viaggiatori si rannicchiavano negli anfratti riparandosi coi grossi sacchi che trasportavano, o stringendosi gli uni agli altri, di schiena, di fianco, cercando di riscaldarsi, si ingobbivano sotto pastrani e scialli, e sembrava che i loro capi chini fossero gravati da chissà quali pensieri. Quante tratte avevano già percorso in simili condizioni? Il popolo comune, se voleva spostarsi, doveva prendere quel che trovava. Ma da quando era per via, e Neržin ne aveva provati di modi di viaggiare, una cosa del genere non l’aveva mai vista».

Dalla scoperta di questa umanità sofferente nascono i dubbi di Neržin-Solženicyn, ed è la pietà che lo porta a scoprire la grande menzogna nata dall’amata rivoluzione.

 

Giovedì 8 marzo sarà presentata la prima edizione italiana, curata da Jaca Book, di Ama la Rivoluzione, romanzo d’esordio di Aleksandr Solženicyn. Milano, Pinacoteca Ambrosiana, Piazza Pio XI, 2. Sarà presente Ignat Solženicyn, figlio del grande scrittore.

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