È passata poco più di una settimana dal giorno in cui il Conseil constitutionnel francese (con la decisione n° 2012-647 DC del 28 febbraio 2012) ha dichiarato “contraria alla Costituzione” la legge “volta a reprimere la contestazione dell’esistenza del genocidio armeno”.

Si tratta della notissima disciplina con cui il Parlamento d’Oltralpe aveva esteso anche a questo caso l’applicabilità della sanzione penale dell’arresto e di 45mila euro d’ammenda già prevista in quel Paese per coloro che “neghino o minimizzino in modo scandaloso” l’esistenza di uno o più genocidi riconosciuti come tali dalla legge.



Approvata poco prima di Natale, questa disciplina era stata salutata con grande favore da parte della comunità armena, non solo in Francia, e anche dal Presidente Sarkozy, provocando, viceversa, le immediate e dure reazioni dello Stato turco.

Alcuni deputati e senatori, tuttavia, l’avevano messa subito in discussione, ritenendola in conflitto, innanzitutto, con la garanzia della libertà di espressione e di comunicazione tutelata dall’art. 11 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. Essi avevano, dunque, sollecitato l’intervento del Conseil constitutionnel, che, per l’appunto, ha accolto tale critica: ha, cioè, precisato, sia pur in una motivazione assai concisa, che l’elemento problematico non è, di per sé, il riconoscimento legislativo di un evento storico quale genocidio; il fattore delicato consiste, piuttosto, nell’effetto, indotto da quel riconoscimento nell’ambito dell’ordinamento francese, di aver limitato, in modo non adeguato, né proporzionale, né effettivamente necessario, la predetta libertà di espressione e di comunicazione. Questa, infatti, “è tanto più preziosa perché il suo esercizio è un presupposto del regime democratico ed integra una delle garanzie finalizzate al rispetto degli altri diritti e delle altre libertà”.



Una simile vicenda si presta a molte osservazioni, dal momento che compendia in pochi e semplici tratti tutti i più delicati profili della criminalizzazione del negazionismo e delle cosiddette “leggi della memoria”. Poniamone in luce alcuni, procedendo con ordine.

Il negazionismo è fenomeno che ha investito, in origine ed essenzialmente, l’Olocausto, e che ha coinvolto, su versanti decisamente opposti, non solo molti giuristi, storici o filosofi, ma anche molte figure di spicco di quello che potrebbe definirsi come ceto intellettuale globale (da Noam Chomsky a Bernard-Henry Lévy). Di questo panorama, ad esempio, è bella e ricca testimonianza un composito volume, edito dalla Oxford University Press (Genocide Denials and the Law, 2011), che raccoglie, da ultimo, una selezione interdisciplinare di autorevoli riflessioni tecniche.



La questione, a ben vedere, si traduce in alcuni basilari interrogativi. È possibile sostenere, parafrasando il titolo di un recente pamphlet di Donatella Di Cesare, che “Auschwitz è nulla”? Fino a che punto, cioè, è possibile, riprendendo gli estremi di un altro recentissimo saggio di Daniela Bifulco, “negare l’evidenza”? Può il legislatore dello Stato costituzionale e democratico decidere di punire l’atroce contestazione che simili negazioni contengono e che sembra perpetuare un’insopportabile offesa ai diritti dell’uomo e alle libertà fondamentali che proprio dalle ceneri della Shoah sono sorti per frapporre un limite invalicabile alla violenza?

A questi interrogativi parte degli interpreti tendono a rispondere nel modo seguente: per quanto riesca orribile il tentativo di sostenere che alcuni fatti non siano mai avvenuti, l’opzione pubblica di sanzionare penalmente una condotta che potrebbe anche essere ritenuta, al limite, una “non opinione” – e quindi una comunicazione performativa capace di perpetuare e rinnovare il disvalore delle azioni che si intendono negare – entrerebbe in radicale contrasto con la tutela di quei diritti e di quelle libertà rispetto alle quali proprio la democraticità e l’apertura del dibattito pubblico costituiscono il più valido presidio.

La libertà di manifestazione del pensiero e la libertà della scienza e della ricerca non potrebbero tollerare una simile compressione; il vero e unico antidoto ai pericoli e alle derive culturali potenzialmente connessi alle affermazioni negazioniste risiederebbe, quasi paradossalmente, nella regola del libero confronto storiografico. Ad un attacco virtualmente violento, dal substrato illiberale, la migliore, ed anzi unica, risposta dovrebbe consistere nella posizione opposta e massimamente liberale. Scegliere la soluzione criminalizzante significherebbe incappare in un radicale cortocircuito, capace di minare gravemente i pilastri dello Stato di diritto e della tradizione democratica.

La posizione del Conseil constitutionnel ricalca, in effetti, questa nitida impostazione. Ad essere in gioco, in questo caso, non è la Shoah; al centro dell’attenzione vi è il genocidio armeno, un fatto che, tuttavia, la migliore e più accreditata storiografia considera come realmente verificato, rappresentando, per molti, il prototipo del genocidio tout court, ossia il modello della medesima categoria, che al tempo dei fatti, però, ancora non esisteva.

Assumere la prospettiva offerta dalla vicenda armena è utile anche per il fatto che consente di apprezzare un ulteriore cortocircuito delle “leggi della memoria”.

In questo complesso frangente emerge visibilmente la natura frammentaria e intrinsecamente convenzionale e “funzionale” del contenuto di questa tipologia di leggi. Il Parlamento che le approva, la collettività che vi si riconosce, gli interpreti che ne condividono la ricognizione, pur essendo formalmente tutti dalla stessa parte, il più delle volte lo sono per ragioni o con intenzioni differenti. E lo stesso vale per chi vi si oppone.

In altre parole, può semplicemente constatarsi, proprio mediante il caso armeno, che il riconoscimento normativo del genocidio “eccede” drammaticamente le ragioni astratte della sua finalità specifica. Non si tratta soltanto di un atto di ricordo, a univoco suggello di un “patriottismo costituzionale” ben preciso e a perfezionamento progressivo di un’articolata politica pubblica della memoria. Gli armeni, ad esempio, vi vedono un atto di giustizia, che, per quanto riguarda la loro comunità francese, comporta anche una conferma del vincolo di cittadinanza; alcuni noti studiosi e opinion leaders transalpini vi leggono la riaffermazione nobile dell’universalismo che contraddistingue quella tradizione culturale; il Presidente Sarkozy ci ha creduto per ricevere il qualificato sostegno di entrambe le categorie e, verosimilmente, per assumere un contegno univoco nel contesto internazionale e nei rispetti, precisamente, della Turchia. Quest’ultima, invece, vi ha scorto un gesto offensivo, che è stato giudicato come tale, ma per motivazioni del tutto diverse (e non propriamente politiche), anche dagli storici o dagli intellettuali che si sono spesi in nome della libertà di opinione o di una concezione strettamente liberale del diritto penale.

 

Con ciò, si può verificare che la fissazione legislativa di una “verità” storica non è solo delicata in quanto espressiva della pretesa di consolidare una determinata “lettura” degli eventi; essa è delicata anche, e forse soprattutto, per il fatto che può contribuire ad una sorta di “effetto doping”, in palese contrasto con la finalità di riparazione, e di ri-conciliazione al contempo, che le viene idealmente attribuita.

Peraltro, come ha acutamente osservato da tempo il costituzionalista Andrea Pugiotto, la memoria legislativa rischia di tradursi in dinamiche inflattive (quante sono le memorie da tutelare?) e strumentali (proprio perché tradotta in legge, la memoria è frutto e stimolo di accese negoziazioni politiche e di nuovi fraintendimenti). La memoria non è solo ricordo, è anche racconto, sede di esperienze, emozioni, analisi e documenti tra i più vari, senza che sia possibile, quindi, ipotizzarne la sintesi per eccellenza in un atto pubblico e valido ad ogni effetto (sia esso una legge, sia esso una sentenza).

Può dirsi, nonostante ciò, che la decisione del Conseil constitutionnel chiuda il dibattito e confermi, una volta per tutte, la tesi per la quale il negazionismo è soltanto un fatto “culturale”?

Anche questa lettura sembra eccessiva, e ciò si dice non tanto per svalutare l’impatto del profilo “culturale”, quanto, piuttosto, per valorizzare uno spazio di possibile e ragionevole elaborazione di una strategia pubblica della memoria. Questa, infatti, non può valersi soltanto di definizioni legislative, di pronunce giurisdizionali o di monumenti e celebrazioni “statiche”. Che cosa impedisce, ad uno Stato costituzionale di diritto, di porre semplicemente, ma istituzionalmente, le occasioni e i luoghi per le riflessioni, anche solo “culturali”, sulla memoria?

Se dovessimo guardare al contesto italiano, possiamo individuare abbastanza facilmente quelle occasioni e quei luoghi: l’istruzione e l’insegnamento di “Cittadinanza e Costituzione”; le iniziative di riconciliazione e di ricordo attivate dalla Presidenza della Repubblica in occasione del festeggiamento del 9 maggio (Giorno dedicato alle vittime del terrorismo e delle stragi); la valorizzazione della cittadinanza attiva anche come veicolo di iniziative per la memoria, intesa, in questa prospettiva, come declinazione puntuale dell’interesse generale protetto dall’art. 118, comma 4, della Costituzione.

Può dirsi aperta, pertanto, anche nel nostro Paese, la stagione delle sperimentazioni e delle proposte.