Qualcuno, tra i pescatori, comincia ad ammetterlo apertamente: che sì, insomma, il mare avremmo dovuto trattarlo meglio; la pesca ridotta ad un lavoro industriale, una catena di montaggio da far andare sempre più veloce. Allo stesso tempo aggiungendo tra le righe, quasi a scusarsi, una spiegazione per quello che è successo. Come se una foga improvvisa, una frenesia incontrollabile li avesse assaliti e loro – quelli passati in una sola generazione dalle reti trainate a remi, a forza di braccia, ai pescherecci a motore, prima a carbone e poi i grandi diesel di oggi – si fossero sentiti giustificati, finalmente, a chiedere il conto al mare della loro fatica e della miseria che l’aveva sempre accompagnata.
No, non tanto da farsi ricchi, ma da viverci bene; per dare un po’ di stabilità alle proprie famiglie. Che poi vuol dire poter dare ai propri figli una scelta, far decidere a loro se vogliono farlo, il mestiere, o invece preferiscono continuare a studiare, andare in fabbrica o dove gli pare. Un lusso che a loro, i genitori, non è stato concesso.
“L’aveva accompagnato la famiglia al completo, quasi avesse potuto sbagliare la strada o addirittura scappare. Tutti insieme, di corsa, lungo le stradine che conducono al porto: la mamma e le sue sorelline addirittura vestite di bianco come nei giorni di festa. I suoi nuovi compagni ad aspettarlo già sulla barca, in fila, appoggiati al parapetto di legno. Perfino l’applauso”.
Ma se pure l’hanno fatto per i figli, tutto si paga. E così, oggi, i pescatori si trovano ad andare in giro per il mare tornando spesso con le reti semivuote. Chiedendosi se lui, il mare, ce l’abbia con loro, se ne disdegni la compagnia. E questo forse è un cruccio maggiore della constatazione che il pesce stia finendo. Perché va bene i soldi, ma qui c’è di mezzo qualcosa che vale più del denaro, qualcosa che riempia la vita. Poveri si può vivere, ma non senza un posto in questo mondo che sia tuo, il tuo soltanto.
“Mario non l’avrebbe mai ammesso, ma se restava con loro era soprattutto per quello, per quel privilegio che è dato ai pescatori soltanto, e solo ad alcuni di essi, di vivere sempre in balia di quella canzone, di quell’invito d’incanto che sale dall’acqua e che il mare non riesce a coprire; sussurra di te, senza faccia, vicino, e ogni volta, girando lo sguardo, ti costringe a ridire ‘Chi è?’, ma sottovoce, per la vergogna che i compagni vicini possano riuscire a sentire che parli col niente. O col mare”.
Che non si tratti di poesia a poco prezzo lo si capisce osservando lo sguardo di ognuno di loro, come sia incatenato ad un ultimo orizzonte, come non riesca, in fondo, a cercare nient’altro. Come navigando su un unico bordo, quello del mare stesso, sul limitare stabilito oltre il quale deve trovarsi la sorgente misteriosa da cui nascono le cose, che le fa accadere o invece finire, che fa sorgere il sole, le stesse onde del mare; e insieme il confine sottile lungo il quale quello stesso mistero si fa incontrare, quasi chiamare per nome, e sussurra di te, reclamando la tua compagnia, anche il tuo amore.
La pesca sarà in crisi, si staranno rottamando le barche, sempre di più; e poi piccole flotte e intere marinerie che non sanno più come fare a campare. Ma una cosa che finisce è anche un’occasione – essa stessa pur morente o la sua memoria – il punto da cui si può ricominciare.
E se le storie di pescatori sono sempre state storie di prediletti, di gente segnata da quanto accade su quella soglia tra il mare e un mistero più grande, basta uno solo che se ne accorga di nuovo e la pesca non finirà.
L’autore, Roberto Gabellini, ha pubblicato Pescatori d’Italia. Storie sul bordo del mare (Mursia), storie di vita raccontate dai volti di pescatori delle coste italiane. Un viaggio in parole e foto, dal Veneto alla Liguria, passando per Sicilia e Sardegna, nel tentativo di decifrare il sentimento impresso sulle facce di quegli strani uomini.