Negro latte dell’alba noi lo beviamo la sera
noi lo beviamo al meriggio come al mattino lo beviamo la notte
noi beviamo e beviamo
noi scaviamo una tomba nell’aria chi vi giace non sta stretto
Nella casa vive un uomo che gioca colle serpi che scrive
che scrive in Germania quando abbuia i tuoi capelli d’oro Margarete
egli scrive egli s’erge sulla porta e le stelle lampeggiano
egli aduna i mastini con un fischio
con un fischio fa uscire i suoi ebrei fa scavare una tomba nella terra
ci comanda e adesso suonate perché si deve ballare
(…)
Negro latte dell’alba noi ti beviamo la notte
noi ti beviamo al meriggio la morte è un Mastro di Germania
(…)
i tuoi capelli d’oro Margarete
i tuoi capelli di cenere Sulamith
Non avremmo mai voluto profanare, citandoli in occasione dell’ormai celebre e scadente pamphlet di Günter Grass, questi versi, questa Todesfuge, Fuga di morte (Paul Celan, Fuga della morte, in Id., Poesie, a cura di G. Bevilacqua, Milano, Mondadori 1998, pp. 63-65) e non perché crediamo all’ambiguo detto di Adorno, secondo cui dopo Auschwitz non si può più scrivere poesia. Ma perché sono versi che rompono il mare gelato dentro di noi, avrebbe detto Kafka, colpiscono il cuore, perché vanno dritti ad esso come una freccia sottile, quella dei fatti. E vanno dritto al cuore tanto di Margarete, un nome simbolico, quello della protagonista femminile del Faust di Goethe, quanto al cuore di Sulamith, il cui nome è quello della sposa di Salomone nel Cantico dei Cantici.
Questa sì è poesia, perché nonostante tutto quello che è successo, o forse in nome di esso, non guarda alla genealogia, all’origine, o razza o popolo, ma si rivolge a un Tu, e punta, per la sua natura linguistica, al dialogo, a una realtà ancora aperta al dialogo. È la poesia di un ebreo rumeno della Bucovina la cui lingua madre è il tedesco, che ha visto portare via i suoi genitori nei campi di morte: il suo nome è Nessuno, ovvero Paul Celan, morto suicida a Parigi nel 1970. Ed è una poesia che mette in versi un difficile, forse impossibile amore, o dialogo, ebraico-tedesco, scritta tanto in nome dei biondi capelli d’oro di Margarete, quanto dei capelli di cenere di Sulamith, forse passati attraverso un camino. Perché la morte è venuta da lì, dalla Germania.
Perché ricordiamo oggi questi versi? Perché vorremmo ricordare allo scrittore tedesco Günter Grass, Nobel per la letteratura nel 1999, che una poesia, essendo impresa linguistica, è impresa dialogica per eccellenza, aperta ad acquisire e raggiungere l’Altro. Solo così è lecito scrivere poesia, e non solo dopo Auschwitz. Non scomodiamo la poesia, per carità, si potrebbe dire, dopo aver letto “Warum schweige”, “Perché taccio”, di Grass, una sequela di parole di condanna per Israele, reo tout court di essere sul punto di provocare una terza guerra mondiale colpendo il popolo iraniano, comparsa con sapiente regia comunicativa su svariati quotidiani, e ora giustamente lodata dal governo iraniano, che ha dimostrato di aver ben compreso Grass e di saper sfruttare ogni occasione favorevole alla sua politica di morte.
In effetti, quello che Grass fa uscire dalla sua penna non è poesia, non bisogna infatti lasciarsi trarre in inganno dalle inversioni, dagli a capo e dagli spazi bianchi. E non lo è soprattutto perché Grass non si rivolge a nessun Tu, non si rivolge né cerca l’Altro non insegue i fatti, e ha addirittura la pretesa arrogante di prevedere le accuse che gli verranno mosse, sperando così con ciò stesso di vanificarle. Viene il sospetto che lo scrittore pensi soprattutto e solo a sé stesso, voglia cioè far parlare di sé, di Günter Grass, un irresponsabile che dispone di un potere sgradevole ma gradito al gergo politically correct, di destra e di sinistra.
Noi gliene vogliamo anche perché, in un momento così difficile per i tedeschi che, a torto o a ragione, corrono il rischio di essere di nuovo poco amati, egli rischia di gettare una luce sinistra più sui capelli d’oro di Margarete che sui capelli di cenere di Sulamith.