Ricordare Primo Levi, nel venticinquesimo anniversario della sua tragica morte, significa anche fare memoria delle circostanze drammatiche che portarono, nella sua vita, alla scelta della scrittura come forma estrema di educazione e testimonianza.

Fino allo scoppio della seconda guerra mondiale Primo Levi, se pure in condizioni di semiclandestinità a causa dei provvedimenti antiebraici, svolge la professione di chimico, lavorando prima in una cava di amianto a una quarantina di chilometri da Torino, e poi a Milano. Il 1943 è l’anno della svolta: l’8 settembre viene firmato l’armistizio tra l’Italia e gli alleati anglo-americani, dopo il quale le truppe tedesche occupano la città di Milano. Levi, costretto a fuggire, raggiunge la Val d’Aosta, dove si unisce a una formazione di partigiani. Nel dicembre di quell’anno, però, è catturato dalle milizie fasciste e mandato al campo di concentramento di Fòssoli, presso Modena; di qui, con altri seicento ebrei, è trasferito ad Auschwitz, dove rimane fino al gennaio del 1945. Si salva dalla morte, come lui stesso ha confessato, per varie e fortunate congiunture.



Tornato in Italia, Levi avverte il bisogno di raccontare, rendendo pubblico quanto ha sperimentato. Nasce così Se questo è un uomo. Il dattiloscritto viene però rifiutato da Einaudi, che ne giudica sconveniente la pubblicazione a causa della materia scabrosa. Per un intervento dell’amico Franco Antonicelli, il libro è stampato nel 1947 dal piccolo editore De Silva di Torino. Le accoglienze da parte della critica sono buone, ma il testo riscuote scarso interesse fra i lettori, che nel tempo aspro del dopoguerra vogliono guardare altrove. Levi ritiene perciò concluso il suo compito di scrittore e torna a dedicarsi alla chimica. Tra il 1955 e il 1956, in occasione di una mostra sulla deportazione e sui campi di concentramento, a Torino, Levi tiene una conferenza, suscitando grande emozione. Rinfrancato, dopo rimaneggiamenti e ampliamenti (che ne puntualizzano la sostanza propriamente letteraria), ripropone il romanzo all’editore Einaudi, che accetta di pubblicarlo nel 1958 nella collana dei «Saggi».

L’opera, subito esaurita e ristampata, ottiene uno straordinario successo. In un decennio, dal 1947 al 1958, lo scenario è mutato: l’argomento del libro non appare più talmente crudele da dover essere rimosso. In breve il testo si afferma anche a livello internazionale: viene tradotto in inglese, in francese e in tedesco, e diventa una pietra miliare della letteratura del Novecento.

L’eccezionale esemplarità del libro di Levi può essere compresa attraverso le osservazioni di un suo contemporaneo, il poeta Andrea Zanzotto: Levi «rappresenta la realizzazione di ciò che non sembrava possibile: non solo scrivere dopo Auschwitz ma scrivere dentro queste ceneri, arrivare alla poesia piegando questo annichilimento assoluto, e pur rimanendo in certo modo nell’annichilimento». 

L’esperienza di Auschwitz, manifestazione assoluta del male, parrebbe obbligare al silenzio, per l’incapacità di trovare una spiegazione alla crudeltà praticata contro i propri simili. Tramite Se questo è un uomo, invece, Levi trasforma la negatività in argomento di intrepida meditazione e ferma testimonianza. Pier Vincenzo Mengaldo, al proposito, ha detto: «In Levi incredibilmente rimane sempre, nonostante le terribili smentite che la vita s’incaricò di dargli, un atteggiamento leibniziano verso la realtà, vale a dire il senso della razionalità, se non della storia, della natura, e la fiducia nella funzione ordinatrice della ragione umana».

Il libro di Levi ha assunto nella sensibilità critica mondiale un rilievo ineguagliabile poiché è stato scritto non per accusare o commuovere, ma per insegnare a illuminare la realtà (anche quando è più buia) attraverso la ragione, non smarrendosi tra le pieghe spesso capziose degli astratti moralismi. L’umanità e il coraggio dell’autore si traducono allora in una lezione di metodo che può valere, forse, ancora oggi per tutti: «Quando scrivevo – ha confessato lo stesso Levi –, avevo un’idea sola e precisa in mente, non certo quella di fare un’opera letteraria, ma di portare testimonianza, e un testimone è tanto più attendibile quanto meno esagera o quanto meno rischia di essere scambiato per uno che esagera. Io avevo paura che potessero essere presi per fatti inventati quelli che, purtroppo, non lo erano. […] Io volevo raccontare quello che avevo visto». Si coglie da queste sue parole la sostanza autentica di una vocazione poetica, tesa a restituire, tramite la scrittura, quanto è stato visto e vissuto senza censurare nulla, senza cedere alla tentazione banalizzante della superficialità o della magniloquente omologazione.