Colpisce, e lascia sconcertati inducendo a pensare male, ciò che manca ne Romanzo di una strage, il film di Marco Tullio Giordana sulla strage di Piazza Fontana. È la campagna di odio scatenata dal capofila dell’estremismo eversivo, il quotidiano Lotta Continua, contro il commissario di polizia Luigi Calabresi.

Al pubblico dei giovani andava spiegata la tecnica micidiale, fondata su voci, mezze frasi, sospetti, indiscrezioni con cui l’organo dei lotta-lotta ha demonizzato il bravo poliziotto milanese. Il film di Giordana lo risarcisce dei dileggi e delle infamie di cui è stato ricoperto da una banda eversiva.



Quello che girava intorno al giornale della rivoluzione-­sull’uscio-­di-­casa era un mondo multiforme e inaffidabile. Compagnucci, imbonitori, mezze gole profonde, raccoglitori di fanfaluche, agenti dell’improbabile, ramazzatori di incerte sporulazioni facevano cucinare una ribollita di informazioni. Dalle fabbriche e dagli uffici. Dalle scuole e dall’esercito.



Era un pomposo vestito di Arlecchino. Ma mani irresponsabili, sprezzanti di ogni etica nell’informazione (la verifica e il controllo delle fonti) e di ogni timore di intossicare i lettori, ne hanno fatto un ghiotto colostro. Veniva imbandito così il primo acconto mattutino della pedagogia quotidiana per la rivoluzione.

La sindrome cospirativa, di cui la generazione dei neo-­comunisti si nutriva, non ha avuto mai bisogno di fatti certi, di prove. Per il suo mandato istituzionale (dirigente della questura di Milano) Luigi Calabresi era un oppressore dei proletari, e basta. Un impiccio al loro riscatto. In questo modo è assurto al rango di nemico numero uno. Della classe operaia, anzi del popolo. Dunque, da far fuori alla prima occasione utile. Nell’immaginario di centinaia di migliaia di lettori del quotidiano e dei loro compagni il suo ufficio di commissario politico diventò un luogo preciso e altamente simbolico:la tana della bestia in cui aveva trovato la morte l’anarchico Giuseppe Pinelli. Defenestrato, e non suicidato. Ma Calabresi non era presente.



Contro di lui cominciò una martellante battuta di caccia fino a organizzarne l’assassinio. Il 17 maggio 1972 il suo scalpo, zuppo di sangue, fu dato in preda a folle (mai viste) di diseredati. Potessero, con questo balsamo da vittima sacrificale, alleviare il loro secolare sfruttamento da parte dei padroni per l’estrazione del plusvalore.

Il film racconta un’altra storia e un altro personaggio. Quella di un poliziotto misurato, il classico (e raro) uomo delle istituzioni. Fruga nei covi del sovversivismo per tenersi informato. Vuole prevenire i delitti. Sa conquistare la simpatia di un anarchico responsabile come Pino Pinelli.

Non è un complice, Pinelli, non tradisce i suoi compagni del Ponte della Ghisolfa. È solo nemico della violenza, dello spargimento di sangue, che vuole evitare. Nel film Calabresi ha l’aria stupita e chiaramente irritata quando Guida e Allegra lo lasciano con i giornalisti a difendere una tesi non sua, che non condivide, cioè la responsabilità degli anarchici nella strage della Banca.

Credo, però, ci sia qualcosa di più che non si vuole perdonare a Giordana. È il fatto che di fronte a Umberto D’Amato, che vuole portarselo a Roma, come suo braccio destro nell’Ufficio Affari riservati, Calabresi alzi il dito accusando l’estrema destra, con le complicità anche internazionali, della strage. E D’Amato conferma che all’Italia si vuole riservare il destino della Grecia dei colonnelli. 

Questo episodio per i talentuosi naufraghi di Lotta Continua è una scudisciata in pieno viso, come dire: “avete ucciso uno che sulle bombe di Piazza Fontana la pensava come voi. Non sapete distinguere i nemici dai possibili – solo momentanei ovviamente – alleati. Calabresi l’avete prima dileggiato in ogni modo e poi assassinato come un cane con la lebbra. Vergognatevi”. Nessuno, e soprattutto mai un compagno di strada come Giordana, aveva osato tanto. Mi auguro abbia tenuto conto che i lotta-­lotta nella stampa e nella tv sono molto influenti.

Ciò che nella polemica recente è in gioco è la salvaguardia della ragion d’essere del sovversivismo di gruppi come Lotta continua. Se il segno delle bombe milanesi fosse intinto di rosso, la responsabilità finirebbe per investire l’intera sinistra. E i gruppi estremisti, che come Lotta continua avevano anche degli apparati paramilitari e praticavano gli espropri cosiddetti proletari delle banche, sarebbero stati delegittimati nel loro tentativo di spostare in avanti il terreno dello scontro, e la stessa posta in gioco.

Sostenendo che la strage era di origine neofascista o imperialista, si intendeva, e si intende anche oggi, accreditare l’idea che per fronteggiare un tale pericolo fosse necessario supplire alla debolezza e alla fragilità della democrazia. Poiché la presenza del Pci non ne garantiva la stabilità e la capacità di fronteggiare gli attacchi dirompenti delle forze reazionarie, si doveva puntare su un soggetto politico più radicale. Insomma ad esser messa in discussione è la necessità o meno di aprire un processo rivoluzionario.

Alla fine, Lotta Continua si è dissolta. Non ha lasciato ai proletari se non la memoria di una forte, fino allo spasimo, mobilitazione muscolare, una lotta senza quartiere. Non uno straccio di progetto riformatore, di metodo di contrattazione, di ristrutturazione del regime di fabbrica dal quale potere ripartire. Il campo è stato occupato da ciò che era cresciuto ai suoi fianchi e in parte al suo interno, cioè il terrorismo.

Come se non bastasse il regista si macchia di una seconda colpa. Prende sul serio, e abbozza una risposta all’ipotesi delle due borse, e quindi delle due bombe di diversa potenza che sarebbero state collocate nel salone della Banca Nazionale dell’Agricoltura. Giordana riprende sobriamente gli argomenti illustrati da Paolo Cucchiarelli nel suo recente volume sulla strage di piazza Fontana edito da Ponte alle Grazie a Firenze. Per tale ingenuità, anche questo giornalista e saggista di estrema sinistra (ha teorizzato, molti anni fa ormai, una cosa peregrina come l’esistenza del doppio Stato) diventa carne da macello. Lo hanno sottoposto ad una vera e propria campagna di discredito che anche gli errori rilevabili qua e là non giustificano in alcun modo.

I suoi giustizieri sono impietosi. Il malcapitato non sarebbe uno storico, ma un costruttore di filiere. Non saprebbe  leggere i documenti. E tantomeno pesarli. Ma chi lo mette alla berlina? Non di rado è gente per lo più senz’arte né parte. Affabulatori, gazzettieri. Fior di cittadini che passano i giorni, e fanno cassa, in televisione, pascendosi come salamandre contro il fuoco dei conflitti spartitori.

Ma conoscono a menadito le regole del ruere in servitium. In romanesco verace si dice che sono esperti di paraculismo. Una delle regole auree, indiscutibili, di questa arte è che il mio amico Paolo Mieli sia uno storico che fa anche il giornalista. In realtà, Paolo non ha mai lavorato in un archivio. Non ha mai scritto – perché ha del pudore o forse perché non è un cinico – un saggio e tanto meno un libro di storia. È un bravo e attento bibliomane. Ha cartelle rigonfie di ritagli. Parla come mamma comanda. Poco e piano, quasi a fatica.

Non è un vezzo, lo giuro. Perciò Giovanni Floris, Gad Lerner, Michele Santoro ecc. lo mettono in cattedra una sera sì una sera no. Dio e giudice. Come mai il potentissimo Mieli passa per uno storico, senza esserlo, mentre il povero Paolo Cucchiarelli, che frequenta gli archivi, si documenta moltissimo, non evita le questioni spinose, in queste settimane viene sbertucciato come un venditore di immagini apocrife e di leggende da suburra? Non è uno storico, ma non merita l’enorme discredi to di cui lo si è investito.

Ciò che non si dice, non si vuole che si sappia,è che in realtà né Cucchiarelli né Giordana hanno inventato nulla. Sono un perito come Cerri e un magistrato come Emilio Alessandrini, tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio del 1970, ad avere attirato l’attenzione sul doppio innesco, cioè sulla ipotesi che le borse, e le bombe esplose, fossero due.

Una (probabilmente di scarsa potenza) proveniente dal segmento bombarolo e irresponsabile degli anarchici (di cui faceva parte Valpreda), e l’altra da una ramificata trama eversiva veneta (Ventura e Freda) con collegamenti tra pezzi dei nostri servizi e militari della Nato.

 Qui nasce il secondo motivo di levata di scudi contro il regista Giordana. Non si può rappresentare la strage della Banca come rosso-­nera. Deve essere solo ed esclusivamente nerissima, cioè opera dei neofascisti in combutta con la Cia e la strategia della tensione montata a Washington, a Lisbona e a Madrid per impedire al Pci di andare al governo. Solo in questa situazione di emergenza nazionale, di pericolo pubblico, l’estremismo del partito di Sofri e Pietrostefani si giustificherebbe.

Ovviamene dove operano i servizi è improponibile cercare le verità definitive di cui ama parlare il direttore de la Repubblica, Ezio Mauro. E anche le verità politiche e quelle giudiziarie non sono disgiungibili. Finiscono per confondersi, come è successo nel periodo della guerra fredda.

Poiché decisioni importanti sono prese con comunicazioni orali, se anche non ci fosse il muro dei segreti di Stato, lo storico si troverebbe di fronte a documenti che non parlano o raccontano una storia incredibile, poco affidabile. Per quanto concerne la situazione italiana, non c’è bisogno di invocare chissà quali misteri, o accreditare quali terribili sospetti, inanellando ad ogni piè sospinto processi sommari. Il Pci non poteva andare al potere in Italia fin quando gli equilibri tra l’area dei regimi liberaldemocratici e quella dei paesi comunisti non fossero stati rispettati, e concordati i mutamenti interni. Ma non c’è stato bisogno di favorire o ordire colpi di Stato, come crede una storiografia dominata dalla sindrome della cospirazione.

 La spiegazione risiede in una valutazione molto semplice: gli elettori italiani non hanno mai accordato al Pci né ad una coalizione di partiti da esso guidato la maggioranza dei consensi per potere governare autonomamente. Dunque, è la pratica dei metodi democratici per costruire il consenso, che fortunatamente anche il Pci con la fine del centrismo riconoscerà come un vincolo, a rendere inutili forzature come colpi di mano o di Stato.

Anche le stragi, certamente troppo frequenti, che hanno insanguinato il nostro paese, vanno relativizzate. Né gli Stati Uniti né singoli paesi della Nato avevano alcun interesse e nessuna ragione per imporre col ricorso a soluzioni armate regimi che il popolo attraverso l’esercizio del voto aveva saputo respingere preventivamente. Mi pare, dunque, inutile cambiare le carte in tavola.

Il film di Giordana e anche il saggio di Paolo Cucchiarelli, per quanto opinabili, sono un argine alla storia scritta dai vinti, cioè falsa, come quella che ogni tanto ci imbandisce Lotta Continua.

Ma non si cessa di essere perdenti neanche con un prolasso di tracotanza e di aggressività.

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