«Il diavolo qui non si veste a rosso o con la camicia nera, ma prende l’abito di sacrestano o di priore di confraternita o di presidente di commissione per le feste religiose». Nel profondo sud dell’Italia degli anni Venti, all’indomani del disastro della Grande Guerra, è in questi termini taglienti che uno dei vescovi più solerti allora attivi al governo delle diocesi bollava i vizi della religiosità popolare condivisa dalle grandi masse contadine. Si tratta di Nicola Monterisi, vescovo dal 1913 di Monopoli, poi di Chieti, infine di Salerno. Agli occhi di un prelato riformatore del suo stampo, fedele alla devota memoria di Leone XIII, il papa della Rerum novarum, in contatto con l’Opera dei Congressi del movimento cattolico fino alla sua soppressione nel 1904, simpatizzante per la prima Democrazia Cristiana di Romolo Murri, collaboratore della Fuci, ciò che era necessario in primo luogo era decidersi, una volta per tutte, a tagliare i ponti con una tradizione che appariva svuotata di ogni vero valore positivo.



Da un passato forse un tempo glorioso arrivavano come eredità sbiadita e drammaticamente problematica lo spirito di indipendenza delle cerchie di notabili che si spartivano il controllo delle comunità locali, la chiusura impermeabile a ogni volontà di cambiamento, l’ignoranza dei contenuti sostanziali della proposta cristiana, i settarismi e le ostinate pigrizie che laceravano l’unità tra i fedeli e corrodevano l’obbedienza alla gerarchia sacerdotale. Davanti alla «decadenza odierna della pietà superficiale», spesso solo «sentimentale», che puntava alla «soddisfazione dei sensi» e si arenava nello spettacolo effervescente delle «parate», tra «spari, bande e luminarie», dove l’«abbondanza» e lo «sfarzo» contavano di più della pratica dei sacramenti e della condotta virtuosa, non restava altro che scommettere sulla restaurazione del «vero spirito cristiano»: bisognava ripartire dall’«essenziale», fare leva sull’annuncio rigoroso e coinvolgente del nucleo autentico della fede per combattere il «formalismo» di una vita impastata di folklore e contrastare l’avanzata di una secolarizzazione di fatto, ormai dilagante nel costume collettivo.



Ovviamente, il caso di Monterisi è tutt’altro che isolato. Il divorzio che esso segnala, tra il cristianesimo delle élite e la religione diffusa nelle periferie di un mondo in cui Cristo sembrava essersi «fermato a Eboli» (Carlo Levi, 1945), può essere visto come l’emergenza del rapporto contrastato e, spesso, aspramente conflittuale che, nel corso dei secoli, ha visto contrapporsi la fede illuminata dei pochi al sentimento istintivo e decisamente meno raffinato dei molti. La traccia di questa dialettica sotterranea, in riferimento al nodo cruciale del valore riconosciuto al bisogno di stringersi in associazione per aiutarsi a vivere insieme il legame con il mistero del sacro cristiano, è al centro di un saggio che ho da poco pubblicato negli atti di un convegno della Scuola Normale di Pisa (Istanze universaliste e particolarismo corporativo nelle confraternite dell’età moderna, in Brotherhood and boundaries. Fraternità e barriere, a cura di S. Pastore, A. Prosperi, N. Terpstra, Pisa 2011, pp. 569-592). Il tema è però di interesse generale, e merita di essere tenuto presente da chi desideri andare a fondo della cultura nutrita dall’impatto della fede con la realtà della società di cui siamo figli.



Prima della grande svolta modernizzatrice di Otto-Novecento, è stato al momento della lacerante crisi settecentesca che l’intreccio tra la religione dei laici e la rete delle istituzioni della Chiesa ha conosciuto la messa in discussione più vigorosa. Dopo che le riforme del concilio di Trento e i loro sviluppi del Seicento barocco ebbero ridefinito il volto del cristianesimo popolare, la presa di coscienza dei limiti di un certo modo di intendere e praticare l’esperienza cristiana riaprì nuove falle nella linea di quella che avrebbe potuto essere una piatta continuità, generando richieste e aspettative che attendevano di essere colmate. L’innalzamento del livello della richiesta si rovesciò in un giudizio di insoddisfazione, fino alle punte estreme della condanna aperta e di una vera e propria demonizzazione.

Per rimediare ai guasti della religione collettiva, l’unico rimedio era reciderne le parti malate e sfrondare risolutamente il superfluo. Gli attacchi sferrati contro il «magismo» e l’infiltrazione degli abusi superstiziosi si univano al desiderio di rimettere al centro della vita della Chiesa l’assimilazione personale, sistematica e coerente, della dottrina in cui si era condensata la sua millenaria esperienza dell’avventura dell’uomo alla ricerca della felicità eterna. Nelle parole di Ludovico Antonio Muratori, il principe dell’erudizione ecclesiastica all’aprirsi del secolo dei Lumi, la «devozione dei cristiani» doveva essere semplificata riducendola ai suoi termini costitutivi: bisognava «regolarla» per trasformarla in una «vera e soda devozione», sgombra di ogni incrostazione superflua, radicata sempre di più nella coscienza dell’io e restituita alla sua anima primordiale. Meno «medaglie, corone, abitini, cordoni, immagini di santi, brevi di indulgenza e simili altre invenzioni visibili di pietà»: sotto la scorza dei «sensibili aiuti» offerti ai fedeli cristiani, bisognava far riaffiorare la polpa gustosa da cui troppo a lungo il «basso popolo» aveva rischiato di essere tenuto lontano.

Il dotto prevosto modenese non aveva dubbi su quale doveva essere il fulcro di un nuovo cristianesimo purificato. Sull’esempio supremo dell’amore rivolto da Dio, per primo, al sollievo dell’uomo bisognoso di salvezza e di redenzione dai suoi mali, la via maestra non poteva che essere quella della carità. Innestata nel cuore stesso di Cristo, la vita del cristiano era chiamata a diventare un «continuo esercizio d’amore verso Dio e verso il prossimo suo». Dalla suafonte divina, discendeva il fine «grandioso, vasto, sublime» che la carità doveva prefiggersi: quello di non lasciarsi bloccare dentro confini e limitazioni angusti, di non respingere a priori niente e nessuno, ma di spalancarsi verso gli orizzonti del tutto, così come senza condizioni e universale era stato l’amore di Dio incarnato nella figura del «nostro gran Salvatore Gesù»: «perciocché egli non ha mai finito di desiderare e sospirare che tutto il mondo diventi una società e radunanza di persone», le quali «per amore di lui si voglian bene come fratelli, si compatiscano, si aiutino e facciano del bene l’uno all’altro per quanto mai possono».

In questa scia, il riformismo religioso del primo Settecento tornava di nuovo a interrogarsi sul senso della simbiosi che nel corso dei secoli si era stabilita tra la vita cristiana del popolo dei fedeli e le tradizioni associative delle confraternite che da tempo ne erano diventate, in tutta l’Europa cristiana (dopo la Riforma di Lutero, in tutta l’Europa cattolica), uno dei più formidabili supporti. La presa di distanza critica era scivolosa e in sé ambigua: insieme all’acqua sporca, si rischiava di gettare anche il bambino che vi stava immerso. Paragonate alla purezza e al desiderio di totalità dell’ideale cristiano, le confraternite e le pratiche religiose popolari che ne erano l’esuberante contorno non potevano non apparire una realizzazione imperfetta. La denuncia delle loro debolezze e del loro conformismo spesso povero di radici divenne il cavallo di battaglia dei rigoristi più radicali, influenzati dal giansenismo e dall’illuminismo laico. Li troviamo schierati a fianco dei sostenitori di una potatura radicale del sistema della pietà cattolica, innervato da una fioritura straordinaria di opere, strutture e associazioni che, dal terreno del culto e delle pratiche devozionali, si ramificavano fino ad abbracciare i vasti campi dell’educazione, dell’assistenza, del lavoro, della vita della famiglia e delle relazioni sociali. Gli effetti si sarebbero visti con intensità crescente nel corso del Settecento: dalla legislazione antiecclesiastica dei governi degli Stati intorno alla metà del secolo si passò alla devastante ondata di soppressioni delle istituzioni religiose volute prima dai sovrani assolutisti, poi dalla Rivoluzione francese e dai suoi eredi giacobini (Napoleone incluso).

Non tutto, naturalmente, andò dissolto. Ma quel che è paradossale è che questa massiccia opera di distruzione era legittimata dai suoi artefici come una salutare riconversione forzata di una organizzazione collettiva che, ai loro occhi, appariva degenerata. Bisognava farla rientrare «nei suoi limiti», riportandola a regole e finalità da tante parti – si diceva – tradite. La polemica contro le chiusure corporative delle confraternite, che creavano distinzioni nell’universo del popolo cristiano e spingevano a enfatizzare le ragioni della prossimità con i propri simili, a scapito della larghezza generosa di una fraternità genericamente aperta a tutti, vicini e lontani, ricalcava spunti già elaborati, due secoli prima, dai riformatori, di tutte le tendenze, fautori di una mai conclusa ricristianizzazione del popolo dei fedeli battezzati (da Lutero e dai suoi seguaci più acidamente di ogni altro).

Ma coloro che volevano rieducare la massa dei «semplici» riportandola al primato di una carità che esige di avere «tutti per fratelli» e di «procurar il bene corporale e maggiormente spirituale» non solo per la propria, ristretta, «fraternità» isolata, ma per «tutti li cristiani», dal momento che l’«amor di Dio» ci impone di amare tutti «come noi stessi, perché tutti ci ha per figlioli, e vuol dar a tutti la medesima eredità del Paradiso», rischiavano di dimenticare una cosa altrettanto essenziale. Cioè che lo spirito di apertura universaledella carità andava esso stesso educato nella pratica: per imparare ad amare tutti gratuitamente e senza distinzioni, bisognava cominciare da qualcuno in particolare, dentro la sintonia di una preferenza, nel circuito di una reciprocità condivisa. Pretendere di amare tutti allo stesso modo, astrattamente, senza vincoli, è come non amare nessuno veramente.