Parlare del dolore è difficile. Parlarne da artisti, si intende. Altrimenti è facile: si sa che lo spettacolo delle disgrazie alza gli ascolti, e qualunque attore vi dirà che si fa meno fatica a far piangere che a far ridere. Non per niente nei Promessi Sposi Manzoni interrompe la storia di Renzo e Lucia quando i loro guai sono finiti perché, spiega ironicamente, dopo il sospirato matrimonio la loro storia diventa “una delle più placide, delle più felici, delle più invidiabili; talché, se ve l’avessi a raccontare, vi seccherebbe a morte”.



Al dolore Marlene Dumas (Cape Town, Sud Africa, 1953), esponente tra le più significative della pittura realista contemporanea, ha dedicato la sua ultima mostra alla Fondazione Stelline di Milano, a cura di Camillo Fornasieri e Alassendra Klimciuk.

Dipingendo la figura umana, che è l’unico soggetto delle sue opere, Marlene Dumas affronta i temi più drammatici: la morte, l’abbandono, la sofferenza della madre che ha perso un figlio e dei figli che non hanno mai avuto una madre. Era una scommessa rischiosa, la sua. Bisognava evitare che il pathos diventasse patetismo, che il pianto si trasformasse in pianto greco e che l’angoscia divenisse teatro o, peggio, accademia dell’angoscia, per usare la perfida espressione di Longhi. L’artista voleva insomma, come ha dichiarato lei stessa, che il dolore convivesse con qualche forma di bellezza.



Nata nell’Africa dell’apartheid, dove è vissuta fino a ventiquattro anni prima di trasferirsi in Olanda, Marlene Dumas di drammi ne ha conosciuti. A quelli politici si sono aggiunti quelli privati perché è rimasta orfana di padre a dodici anni e, per continuare gli studi, ha dovuto chiudersi in un collegio dove si è sentita orfana anche di madre. Il punto di forza dei suoi lavori, però, non è l’espressione del negativo, ma la capacità di reinventarlo in un modo insieme coinvolto e meditato.

Dumas descrive uomini e donne con quello che i critici definiscono “contaminazione di codici linguistici”. Cioè, per dirla come la gente normale, dipinge ispirandosi al cinema e alle fotografie, sia quelle dei giornali che quelle scattate da lei. Immerge poi la figura (un po’ sull’esempio del Picasso del periodo blu) in un colore mentale tra il blu, il nero e il grigio, usando un segno quasi liquido che dà all’immagine l’immediatezza di uno schizzo e l’inconsistenza di un’apparizione.



Con questo linguaggio realista e irreale, alternando iconografie sacre e icone profane – la Madre di Dio e la madre di Pasolini, Cristo crocifisso e il Cristo del cinema – Marlene Dumas racconta i drammi che riserva il destino. “Sorte” si intitola appunto la mostra, e a gridarlo dalla copertina del catalogo c’è Mamma Roma, la donna di vita del film pasoliniano. 

Su questa immagine però, un tempo popolare, occorre soffermarsi, perché molti non la ricordano più. La figura riprende la protagonista di un film che Pasolini gira nel 1962 e che è interpretato da Anna Magnani. Mamma Roma è una prostituta romana che tenta di cambiare vita e riesce fortunosamente a sfuggire al protettore. Per un po’ si mantiene con fatica vendendo frutta e verdura al mercato, mentre il figlio, da lei infinitamente amato, trova lavoro come cameriere. Ma il protettore si ripresenta e la costringe a tornare sul marciapiede. Il figlio, che fino a quel momento ignorava il passato della madre, viene a saperlo e, preso dalla disperazione, si getta nel mondo della malavita. Arrestato per un piccolo furto, morirà in ospedale, tra i deliri della febbre.

Ci voleva un certo coraggio a ispirarsi a una storia come quella di Pasolini, carica di tutto il dramma, ma anche di tutto il melodramma, dell’Italia che stava uscendo dal dopoguerra. Ci voleva coraggio, tanto più in tempi come i nostri: tempi in cui ci hanno fatto credere per anni di essere la società del benessere (anche se poi abbiamo scoperto che eravamo invece sull’orlo del fallimento).

Marlene riesce a creare un’icona efficace eliminando tutto il superfluo e mirando all’essenziale: come se usasse una macchina fotografica “stringe” sul volto di Mamma Roma, ne semplifica i tratti e lo vira in un nero violaceo che le toglie l’immediata riconoscibilità cronachistica. Così la figura non è più quella di un’attrice famosa: rimane solo la sua storia, che diventa l’immagine del dolore e insieme dell’amore che lega una madre al figlio. Del resto molti soggetti di Dumas legano insieme sofferenza e amore. L’artista, cioè, racconta anche una vicenda di pietà, che può diventare una vicenda di redenzione: una parola che appartiene al linguaggio religioso come a quello laico.

Di queste cose parlano anche i quadri creati per l’occasione: quelli ispirati alla Pietà Rondanini e ai crocifissi dei musei milanesi, e quelli sulle “Stelline”, le orfanelle che fino alla metà del Novecento erano ospitate nell’edificio dove ha luogo la mostra.

Le Stelline erano bambine prive di tutto a cui la generosità dei benefattori permetteva un’istruzione e un mestiere, anche se poi la vita di collegio era quella che era (e le finestre avevano le sbarre che l’allestimento ha ripristinato).

È emblematico, tra l’altro, vedere come sono stati interpretati da certi osservatori – non necessariamente critici d’arte – i quadri sulle orfanelle milanesi. Contraddicendo la storia, che ci testimonia che al collegio delle Stelline, come del resto a quello dei Martinitt, non sono mai mancate le donazioni perché la gente lo considerava (giustamente) un’ istituzione benefica; contraddicendo le testimonianze stesse delle orfane milanesi, che hanno sempre parlato con riconoscenza e affetto della loro esperienza, alcuni commentatori hanno dipinto l’antica istituzione delle Stelline come una specie di campo di concentramento dove si conduceva una vita d’inferno.

Ora, è ovvio che vivere in famiglia è meglio che vivere in collegio. È ovvio che avere dei genitori affettuosi, sani e magari ricchi è meglio che rimanere orfani. È ovvio anche che la libertà di cui godeva una ragazza tra Otto e Novecento (non solo alle Stelline, ma anche al Collegio delle Fanciulle che accoglieva orfane di famiglie nobili o abbienti, e, potremmo dire, anche in una qualsiasi famiglia dell’epoca) era soggetta a restrizioni oggi impensabili. Tuttavia impressiona che, invece di riconoscere la positività di quell’organismo di assistenza, si insista sui suoi inevitabili limiti, giudicati tra l’altro non col metro di allora ma con quello di oggi. Non sembra invece questo l’intento di Marlene Dumas che, anche affrontando questo tema, lega insieme la sofferenza e lo slancio affettivo, l’esperienza della durezza della vita e la consapevolezza che esistono anche la generosità, l’amicizia.

È un’ antologica tutt’altro che edonistica, la sua. Eppure da questa quadreria dolorosa si esce con una strana serenità, che non nasce solo dall’aver visto una bella mostra, ma da qualcosa di più misterioso. Che non è buonismo. Forse è speranza.