“È proprio vero che i conti dello Stato sono più importanti di una disoccupazione altissima, diventata quasi fisiologica? Come è possibile che un cittadino accetti di pagare in tasse il 46% del reddito che produce? E questo Stato, con le sue spese che salvano banche e prodotti finanziari, che cittadini rappresenta?”. Ci sono domande divenute ormai un retropensiero inquietante dietro ad analisi, riflessioni e commenti che affollano i dibattiti in questi anni di grande trasformazione. Domande che qui trovano un affronto serio e accorato, a partire dal grande tema sotto i riflettori: quello delle privatizzazioni dei primi anni Novanta. Se non contribuirono a diminuire il debito pubblico; se non portarono ad un azionariato più diffuso; se ebbero un costo consistente finito per lo più nelle tasche di banche d’affari, principalmente anglosassoni, quale fu il vero motivo ispiratore delle privatizzazioni?



Non è una domanda da poco, visto che la lettura di queste pagine dà corpo alla convinzione che la mancata crescita di oggi è frutto delle “disgraziate privatizzazioni senza liberalizzazioni” di quegli anni. E l’autore offre una risposta radicale: “Fu innanzitutto un’operazione di lifting dell’Italia, un’operazione […] di ricerca di credibilità verso i grandi poteri internazionali, in particolare quelli della finanza mondiale. E lo si fece nello stesso tempo guardando gli interessi degli amici degli amici, senza tanti scrupoli”. Ma se la storia delle privatizzazioni, di chi le ha fatte e perché, di chi ci ha guadagnato e come, non può rimanere un “buco nero” nell’autocoscienza italiana, non è forse inutile riflettere su ciò che il nostro Paese si ritrovò a mettere in dubbio per recuperare una sua supposta carente credibilità a livello internazionale: il valore della sua economia reale, contrapposta pretestuosamente a quella finanziaria.



Il nostro sistema produttivo, tessuto connettivo socio-economico del Paese, composto da un numero estremamente ridotto di grandi imprese, da un crescente, ma ancora esiguo, numero di imprese di medie dimensioni e, per la gran parte, da piccole e piccolissime imprese, è stato, infatti, fino alla recente crisi, snobbato da molti economisti e commentatori autorevoli come un retaggio del passato da “rottamare”. Un’operazione di potere quindi, secondo Da Rold, che invece di rilanciare l’economia ha posto le basi per il suo rallentamento cronico che data agli inizi degli anni 2000. Ma sarebbe riduttivo imputare questi fatti a sole operazioni di potere: c’è un errore di culturale di fondo che rischia di ripetersi anche oggi. Nel libro, si parla, a ragion veduta, di “complesso d’inferiorità di una subcultura che non difende la propria identità”. A cosa ci si riferisce? C’è una storia dell’Italia che raramente viene messa in risalto: quella fatta dalle diverse forze culturali che sono riuscite a fondersi, a diventare, prima ancora che esperienze partitiche, realtà popolari vissute, capaci di generare risposte umane e sociali significative: banche, imprese, strutture sociali e hanno ricostruito l’Italia con la più grande diffusione di attività imprenditoriali e sociali esistente al mondo. 



L’iniziativa di tanti “io” che, dal basso e liberamente, si sono messi insieme e hanno collaborato a costruire la storia del nostro Paese, vivendo come opportunità positiva ogni fase di cambiamento. Cosa ha a che fare questo tema con quello delle liberalizzazioni di oggi e di ieri? Ciò che viene sbandierato per giustificare le privatizzazioni, anche quando attuate senza liberalizzazioni è una certa idea di mercato. Il mercato sarebbe il libero muoversi, senza regole, delle forze del capitalismo finanziario. Tale concezione, che poteva mostrare il suo appeal negli anni 90, dovrebbe apparire sconfitta dopo la storia degli ultimi anni. Il mercato è un’istituzione sociale e culturale paragonabile ad una piazza dove un principe consente a tutti di entrare con la loro bancarella e fissa pesi e misure a garanzia degli acquirenti. È un’istituzione che garantisce al più piccolo di entrare con i suoi prodotti anche quando gruppi più grandi tenderebbero ad escluderlo. Un luogo, quindi, dove vigono regole nate “dal basso”, da soggetti economici e sociali e sancite dall’autorità.

La rendita, il non-mercato nasce quando questo armonico fluire e muoversi prevarica, quando non si seguono i “desideri socializzanti”, che, come dice il premio Nobel Kenneth Arrow, unici possono armonizzare interessi individuali e bene collettivo. Eppure anche oggi, in piena crisi economico-finanziaria, si dimentica questa verità e si ripropone un’idea di mercato, simile a quella alla base delle liberalizzazioni degli anni 90, riduttiva e mortificante la nostra identità e il vero sviluppo. In un’Italia che appare sfiduciata, il libro di Da Rold ricorda che il vero mercato è quello che si basa sul desiderio e sulla capacità di ogni singola persona di costruire il bene comune. Le liberalizzazioni, oggi come ieri, se non servono a levare lacci e lacciuoli a questa energia creativa porteranno a nuovi e irreversibili guai.