Il tempo passa ma il 25 aprile, a quanto pare, no. Ci è voluto Napolitano a provare di stemperare le tensioni che sono seguite al rifiuto dell’Anpi, l’Associazione dei partigiani italiani, di invitare alle manifestazioni per l’anniversario della liberazione Renata Polverini, presidente del Lazio, e Gianni Alemanno, sindaco di Roma. Che di sinistra non sono. Il Capo dello Stato però alle celebrazioni ha voluto tutti.
È l’ennesimo caso di come la storia, certa storia nazionale, continui – a distanza di quasi 70 anni – a dividere anziché ad unire. Eppure, alcuni la pensano diversamente. Ben vengano le divisioni, dice Stefano Zecchi, editorialista e docente di estetica nell’Università di Milano. A patto che si mantengano sul piano culturale. Zecchi è autore di un romanzo, Quando ci batteva forte il cuore, in parte autobiografico, sulle vicende della nostra frontiera orientale, dove il ’45 non segnò affatto la fine della guerra, ma l’inizio di un’altra, ancor più ideologica e strisciante.
Ci siamo abituati, negli anni, a sentire esortazioni alla memoria condivisa. Non sembra che ne siamo ancora capaci.
Che la memoria sia condivisa è un’illusione e una ipocrisia. La memoria non è mai condivisa perché ognuno ha la sua percezione del passato, dalla quale viene una lettura della realtà e un giudizio sul mondo. C’è una libertà della memoria che è un dato essenzialmente culturale. E come tale va salvaguardato.
Che cos’è il 25 aprile?
È la data di una vittoria in una guerra civile. Quando ci si spara addosso tra persone di uno stesso popolo con una stessa identità linguistica e culturale, partigiani contro repubblichini e repubblichini contro partigiani, quella è una guerra civile. Non dobbiamo nasconderci il fatto che ci sono stati dei vinti e dei vincitori. E i vincitori, anche politicamente, sono stati i partigiani.
Come mai questo passato dura da 50 anni e non è ancora finito?
Perché in fondo è una storia recente, che ha protagonisti vivi e ferite aperte. Questo non mi sorprende. Le dirò di più: mi sembra un segno di lealtà culturale accettare questa mancanza di condivisione della memoria. Non ne farei uno scandalo. Se è un dato culturale, non possiamo far finta che non ci sia. Per questo, anzi, riflettiamoci su.
Lei ha parlato di libertà della memoria. Però in questi anni si è fatto anche un uso politico della memoria storica, o no?
Certo. E anche questo non mi scandalizza. Il nostro presente è carico del nostro pensiero, e il nostro modo di vedere la vita dipende dal passato. Semmai mi stupirebbe che non ci si stupisse più: questo sì sarebbe preoccupante, perché vorrebbe dire che siamo alla dittatura del silenzio. Il fatto che ci siano divergenze, che si continui a discutere, lo trovo vitale e giusto.
Lei ha scritto un romanzo in cui si rievocano le vicende istriane: la repressione comunista e l’esodo istriano-dalmata.
L’ho scritto perché trovo scandaloso che, com’è accaduto, si sia tentato di occultare quella storia. Il primo errore è dimenticare. La memoria viene tradita non quando non è «condivisa», ma quando viene meno il ricordo.
Quale è il senso del 25 aprile sul confine orientale?
Nel confine orientale, e nella parte orientale di quel confine, il 25 aprile non ha segnato la fine della guerra ma l’inizio di una nuova tragedia, quella di una vera e propria pulizia etnica e dell’esodo che ne seguì. Le terre che furono italiane vennero divise tra Slovenia e Croazia, e la popolazione mandata via. La «liberazione», laggiù, è il ricordo di ciò che era stata l’Italia e che ora non è più. Si può essere vincitori o vinti. Là gli italiani sono stati doppiamente sconfitti.
Il 25 aprile è stata principalmente la festa delle forze laiche e di sinistra che hanno visto in essa il momento culminante di una storia che il successivo regime – democristiano – ha tradito. Questa divisione che cosa ha comportato per l’Italia di oggi?
L’onda d’urto di quegli eventi postbellici è molto attenuata rispetto al passato. Rimane, nella sinistra, la tendenza a demonizzare l’avversario. A livello politico però non si avverte più l’emergenza di una divisione tra fascisti e antifascisti come negli anni 50-70. Semmai quella divisione è diventata quella tra berlusconiani e antiberlusconiani.
Le generazioni passano e già oggi i giovani non sono più legati emotivamente a quelle vicende. È un cambiamento in positivo per la nostra memoria collettiva oppure no?
È una cosa buona quando si affievoliscono quelle tensioni ideologiche che facevano parte della memoria del passato. Ma quando si dimentica, un cambiamento non è mai positivo. La memoria viene tradita quando non viene conservata. Quando questo accade, si tradisce la propria storia e la propria cultura.
Lei sembra rimpiangere lo scontro ideologico…
No. Non la demonizzazione dell’avversario, ma il confronto – quello vero – fa sempre parte della dialettica storica. Non possiamo condividere la memoria per buonismo o per decreto. Ben venga se si configura in uno scontro di idee, che è sempre espressione di una vitalità culturale, purché non sfoci nella violenza. Ma un pensiero che soffoca le differenze è essenzialmente nemico della ragione e della società.
(Federico Ferraù)