«Primavera per me pur non è mai»: così Petrarca chiude il nono sonetto del suo Canzoniere. Ma com’è possibile che la primavera che arriva non venga sentita come una primavera per sé?

Anche se «marzo lucendo nell’aria / con vena sottile rinnova / l’esangue terra invernale / e come occhio di bimbo / tutto s’apre a guardare, / e dà i riccioli al vento», Clemente Rebora si chiede «che val, primavera, con spire / irrequiete turbare / l’inerte mia spoglia?». Perché torni a svegliarmi, primavera? «Che val, primavera, con avida / gioia invitare il mio senso / all’ebbrezza del sole e del vento? / Dall’incessante via / una canzone appassionata esulta, / e un rider sento d’uomini e di donne / che nel lavoro preparan le voglie». Sembrano tutti più allegri, e si preparano per uscire: e come si può, allora, sostenere la fatica, il pomeriggio, di rimanere a lavorare o a studiare? «Dalle pagine ingombre, ottenebrato / il mio volto s’alza a chiedere / la verità della vita / che l’àttimo contrasta / e il dolor solo accoglie. / Ma il dolore non basta / e l’amore non viene» (Frammenti lirici, LV). Come si può sostenere la vita se «l’amore non viene»?



In sua assenza, infatti, ha ragione Petrarca: primavera «non è mai». La primavera ci risveglia, ma quasi per un sottile inganno, se nulla risponde alla domanda per cui alziamo lo sguardo dalle pagine cercando «la verità della vita». Sarà un’altra delle consuete illusioni, che a volte ritornano: per farci sorridere, e quindi per tradirci più atrocemente. Come una stagione transitoria, che passa e non si ferma.



È vero, la primavera viene a portare via l’inverno, e la metafora esistenziale di tale cambiamento è evidente. Lo scriveva Orazio duemila anni fa: «diffugere nives, redeunt iam gramina campis / arboribusque comae; / mutat terra vices» (le nevi si sono sciolte, e ormai ritornano le erbe nei campi e le chiome sugli alberi; la terra cambia faccia). Ma è un’attrattiva di breve durata, sono fiori troppo effimeri: «nimium brevis / flores» (ed è l’avverbio «troppo» a segnalare quanto ci stia stretto che la bellezza non si fermi). La primavera fa appena in tempo a essere salutata che già cede il posto all’estate («ver proterit aestas»), che a sua volta farà spazio al «pomifer autumnus» e quest’ultimo alla «bruma iners» dell’inverno.



È appunto il ciclo dell’anno, scandito da stagioni che vanno e vengono, a far concludere il poeta che non c’è da sperare nell’immortalità: è l’anno stesso ad ammonirci, nonché l’ora che rapisce la bella giornata: «Immortalia ne speres: monet annus et almum / quae rapit hora diem» (Odi, IV, 7).

Il sostantivo è lo stesso che torna nel famoso «carpe diem», anche lì in relazione all’inesorabile fuga del tempo e delle cose («fugerit invida / aetas»): prova a cogliere l’attimo che ti è dato, se riesci ad acchiapparlo mentre ti scappa via. L’istante che fugge segna perentoriamente l’illusorietà di ogni speranza di cose immortali: la vita ci è offerta dagli dèi, e da loro ci viene tolta; non ci salveranno le ricchezze, né la stirpe o le nostre parole o la nostra «pietas», nessuno può aggiungere un istante di vita in più a nessun altro. Non siamo, in fondo, che «pulvis et umbra».

È così, siamo polvere e ombra. Eppure, nella poesia Sopra il ritratto di una bella donna, Leopardi appare travolto dallo scarto tra la «scorsa beltà» e l’attuale «polve e scheletro»: com’è possibile che «quel dolce sguardo», «quel labbro», «quel collo», «quell’amorosa mano» e «il seno» siano diventati «fango / ed ossa»? «Misterio eterno / dell’esser nostro»: ci troviamo in bilico fra la «sicura spene» del «paradiso», di cui la «beltà» femminile è «segno», e il «nulla» in cui «riduce il fato» ogni «angelico aspetto». La ragione di questo paradosso sta nella nostra natura: «Natura umana, or come, / se frale in tutto e vile, / se polve ed ombra sei, tant’alto senti?». Come mai siamo polvere e ombra ma ci «sovvien l’eterno»? Come mai neppure la morte riesce a strapparci questo bisogno di infinito? «Chiuso fra cose mortali / (anche il cielo stellato finirà) / perché bramo Dio?» si chiedeva Ungaretti in una notte di trincea: è strano che proprio la provvisorietà del reale susciti in noi il desiderio del per sempre.

Infatti è proprio Orazio, nell’ultima ode del terzo libro, a scrivere di aver realizzato un’opera più duratura del bronzo e più alta delle piramidi, che niente potrà distruggere: né la pioggia che tutto corrode né il vento impetuoso né la serie interminabile degli anni né la fuga delle stagioni. «Non omnis moriar», grida il poeta: non morirò del tutto. Quanto desiderio di rimanere, quanta speranza – inutilmente repressa – di immortalità, di lasciare da qualche parte un segno: nel tempo o nello spazio, dove il protagonista della Luna e i falò di Pavese cercava di «mettere radici, di farsi terra e paese, perché la sua carne valga e duri qualcosa di più che un comune giro di stagione». E quanto realismo, al tempo stesso, in quell’«omnis» oraziano, che ci testimonia la sua vigile coscienza di un’immortalità comunque incompiuta: «multaque pars mei» si salverà, non tutto («la vostra nominanza è color d’erba, / che viene e va»: Dante lo sapeva benissimo).

Cosa può rispondere totalmente a questa segreta speranza di immortalità? Siamo «come le foglie che genera la primavera»: «come loro, per un attimo godiamo i fiori della giovinezza, senza sapere dagli dèi il bene e il male». La dolente similitudine con cui il poeta greco Mimnermo scopre questa fragilità strutturale risuona in noi malinconicamente vera: ma ci basta essere condannati a nascere e dileguarci? La tristezza che avvertiamo non sarà forse segno di un’inestirpabile esigenza di rimanere? Ma cosa potrà mai far durare la primavera e far sì che «per me» sia primavera?

Forse abbiamo bisogno che diventi nostra la geniale intuizione del Canto notturno leopardiano, quando il poeta – che non sa dimenticare lo «scolorar del sembiante» e il «venir meno / ad ogni usata, amante compagnia» – si dichiara «certo» che almeno la luna sa «a qual suo dolce amore / rida la primavera, / a chi giovi l’ardore, e che procacci / il verno co’ suoi ghiacci». La primavera non può essere spiegata semplicemente come un banale turno nel ciclo delle stagioni: non è così scontato che il cielo si faccia terso, i fiori sboccino, il sole splenda. La primavera è una che è innamorata di qualcun altro, è un «ignoto amante» che si inventa tutto questo teatro di bellezza per corteggiarlo, per sorridergli.

È il sorriso che ci cattura in questi giorni, e che non è affatto spensierato, senza lacrime. Come gli occhi di Silvia, «lieta e pensosa», questi sorrisi primaverili sono «ridenti e fuggitivi». Come si può essere tanto beoti da non accorgersi che un sorriso è fuggitivo? Ma come si può essere così rassegnati da accettare che un sorriso sia fuggitivo?

Proprio in questi giorni di primavera, che speriamo non ci scappino via troppo presto, torna anche la Pasqua di resurrezione: cioè la notizia di una primavera che muore ma risorge, di un amore che viene ad abitare la realtà (fino a dare la vita per un «suo dolce amore»: «per me») e che non va più via, l’annuncio di un fatto in cui l’immortalità diventa possibile, l’eterno non rimane più soltanto un pensiero sconfitto, e «il gioir s’insempra», per dirla con Dante (quel gioire che troppe volte, troppo presto, ci si strozza in gola): «qui primavera sempre e ogne frutto». Ma per cogliere il «diem» di questa resurrezione, per non darla per scontata, per verificare se anch’essa arrivi «per me», ci vuole il bisogno tremendo che la primavera non finisca.

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