Un recente articolo di Slavoj Žižek uscito sul Corriere ha il pregio di portare all’estremo due principi orientativi dell’ethos contemporaneo. Si tratta delle scelte “salutiste” da un lato e del diritto del singolo all’autonomia totale della propria esistenza dall’altro. Due ethos contrapposti dove al controllo totale di ogni atteggiamento che possa danneggiare la salute della persona nel primo caso (e si è con ciò molto vicini a quell’etica dell’amor proprio teorizzata da Fernando Savater vent’anni fa) si contrappone quello della libertà più completa di ciascuno, purché non leda i diritti degli altri.



Spinti ciascuno al proprio limite, come Žižek dimostra, questi due modelli di vita danno vita a situazioni paradossali.

Ciò che è tuttavia emblematico di un tale processo risiede nella comune base antropologica che sorregge tanto la figura del “salutista” quanto quella del “gaudente senza limiti”. In entrambi i casi infatti il soggetto è visto come artefice, libero e indipendente, della propria esistenza.



Nel primo caso questi deve solo liberarsi dalle pulsioni incontrollate a favore di un recupero degli “equilibri della persona”, del “consumo salutare”, del “governo dei propri desideri”. Nel secondo invece si tratta di liberarsi dalle convenzioni sociali, dalle regole e, più in generale, da tutte le costruzioni sociali, destrutturando e ristrutturando in modo personale ogni angolo della propria esistenza.

Tutto questo conduce a vite paradossali, dove il vero problema non è tanto quello costituito dall’estensione illimitata delle regole di comportamento o, all’opposto, dalla soppressione radicale di ogni regola morale, quanto quello del credere in una promessa di potenziale realizzazione del proprio sé.



Tanto in un caso che nell’altro si ritiene infatti che una realizzazione piena sia possibile, a condizione di correggere i propri difetti e riequilibrare i propri desideri (nel primo caso) oppure di sbarazzarsi di tutte le convenzioni e di tutti i divieti (nel secondo). Si tratta quindi di credere nella tesi, politicamente corretta, di un soggetto che è potenzialmente padrone della propria esistenza, a condizione di saper dominare sé stesso oppure di avere ragione di tutte le convenzioni sociali che vede intorno a sé.

Questi modi di pensare sono diventati veri e propri luoghi comuni, modelli di ragionamento diffuso al quale non è possibile contravvenire se non opponendovi un principio avverso, altrettanto radicale.

Si tratta allora di affermare, almeno in una prospettiva relazionale, come l’uomo non sia mai realmente indipendente dai legami che lo definiscono e quindi, in questo senso, non sia mai libero.

L’uomo non è mai libero in quanto ha bisogno degli altri per vivere e questo bisogno non risiede nell’obbligatorietà dei rapporti materiali, ma anche e soprattutto nella indispensabilità di quegli immateriali. L’uomo non ha bisogno tanto di scambiare beni per la propria sopravvivenza (uno scambio tanto necessario quanto irrilevante sotto l’aspetto relazionale) quanto ha invece bisogno di scambiare doni, ha cioè bisogno di donarsi e di ricevere i segni del riconoscimento, della stima e dell’affetto degli altri. 

Ma c’è di più, proprio perché mortale e quindi inevitabilmente carente, ha bisogno di un tipo particolare di dono, quello del perdono per le miserie (i limiti) che continua a portarsi dentro.

Rileggendo la frase di Sartre “l’inferno sono gli altri” (espressa ad epilogo della pièce Intimità a porte chiuse) si può dire che, per questo maestro dell’esistenzialismo, l’inferno sono gli altri quando ci riportano a ciò che siamo, svelando fino in fondo i nostri limiti, privandoci della maschera con la quale ci nascondiamo agli altri e, soprattutto, a noi stessi.

Ma l’intera analisi di Sartre si regge solo ammettendo, accanto alla coscienza realistica di ciò che noi realmente siamo e gli altri svelano, l’idea (o la convinzione triste) che Dio, semplicemente e drammaticamente, non esista, non ci sia.

È solo a condizione che Dio non esista che i nostri limiti ci appaiono insopportabili e gli altri che ce li svelano, costituiscano un vero e proprio inferno. Per un essere che si è prefisso la realizzazione piena del proprio sé, ogni limite gli appare insopportabile, ogni cedimento intollerabile, ogni fallimento insostenibile: chiunque ce lo ricordi ci rende la vita impossibile, infernale.

L’inferno è lo scandalo dei nostri limiti svelati, agli altri come a noi stessi. Limiti che ci appaiono tanto più insopportabili quanto più ci manca tanto la presa d’atto realistica della nostra natura imperfetta, quanto la certezza di essere amati con tutte le nostre imperfezioni da un altro.

L’inferno è quindi la vita smascherata nei propri limiti umani senza la speranza di essere amati così come siamo. E poiché il perdono è il miracolo dell’amore, e questo non ha tracce nel tessuto biologico e psichico dell’uomo, ma rinvia ad un Altro che ce lo pone nel cuore, l’inferno è la vita senza la possibilità, né la speranza dello sguardo e dell’accoglienza di quest’Altro, senza il dono del suo perdono.

È questa cecità nel vedere l’Altro, un Altro che consapevolmente ci accoglie con tutti i nostri limiti, e che ci ama, a costituire l’unico ed autentico Inferno.

La  cifra esatta della vita non risiede allora tanto nel superamento delle proprie imperfezioni (una ginnastica quotidiana nella quale è bene impegnarci ogni giorno, ma dalla quale usciamo sempre perdenti) né nel liberarci dalle convenzioni, quanto nel riuscire a riconoscere l’amore del quale siamo oggetto e, proprio in grazia di questo, riprendere vita.

Si tratta di una missione irrealistica se non si riconosce la grazia di qualcuno che ci ha amati per primo, senza condizioni. E ci è accanto.