I poeti di guerra sono fiori nel deserto. Sono fiori che l’espressione letteraria dei popoli ha sempre coltivato nel dolore. Sulla soglia del Novecento, la cultura inglese vide recidere i più preziosi tra i suoi, quelli che attendevano soltanto di veder fiorire compiutamente le variopinte inflessioni della loro tavolozza poetica: erano gli anni di quella ennesima tragedia umana per la quale Benedetto XV coniò l’indimenticabile definizione di “lotta tremenda, la quale ogni giorno di più apparisce inutile strage”.



La loro voce dolente riecheggia un patire ancora più universale quando, come nel respiro poetico di Wilfred Owen (1893-1918; nato anglicano di tradizione evangelica), si aggira “dalle parti del Golgota”, alla ricerca del “Cristo gentile”, ispirata dalla certezza che “chi ama di un amore più grande / sacrifica la vita, non odia” (Un crocifisso presso l’Ancre, trad. Sergio Rufini, Einaudi 1985).



Se poi tale voce ha il tono imprevisto ma atteso, intenso ma delicato, di una poesia di Alice Meynell (1847-1922), il senso dell’esperienza di quei fiori nel deserto sembra, per effetto di una Speranza nutrita dalla Fede, meno inesorabilmente esposto alla follia dell’umano e più orientato verso l’orizzonte di un travaglio che genera vita, di una violenza redenta dal Mistero della Passione di Gesù Cristo, di un’apparentemente interminabile Notte di Pasqua che troverà risposta nella Sua Resurrezione.

Il testo poetico che segue è una traduzione inedita di Easter Night – appunto – che si accoda a poche altre delle poesie di Meynell, altrettanto solitarie e probabilmente oscure ai più, quali quelle di Alberto Castelli (1948), Francesco Gargaro (1968), Maria Luisa Bonaguidi Paradisi (1989). Notte di Pasqua fu pubblicata nel 1917 a Londra come ultimo testo della raccolta A Father of Women and Other Poems. Riproporla qui e in questa occasione è un modesto ma appassionato omaggio a una poetessa e a una intellettuale che meriterebbe ben altra consapevole e compiuta considerazione di questi tempi, innanzitutto – ma non solo: si perdoni la gratuita licenza paternalistica – da parte del reading public femminile.



Tutta la notte ebbe urlo di uomini e pianto
   Di donne dolenti gremì la Sua via;
Finché, in quel meriggio di tenebroso cielo,
   Quel Venerdì, fragore e ludibrio
Lo tormentarono; mai Egli ebbe solitudine,
   Mai silenzio, fin dal Getsemani.

Pubblica fu la Morte; non così il Potere, e la Forza,
   e la Vita, di nuovo, e la Vittoria:
Tutto ridotto al silenzio nel cuore della notte,
   nell’oscurità forzata, nel segreto.
E completamente solo, solo, solo,
   Egli di nuovo sorse dietro la pietra.

Alice Meynell fu ricevuta nella Chiesa cattolica nel 1868 poco più che ventenne e il suo impegno culturale, sociale, politico, letterario – quest’ultimo tanto apprezzato da farla annoverare tra i candidati al titolo britannico di Poeta Laureato – interpretò l’impronta di quella conversione in modo inconfondibile: com’ebbe a scriverne con la consueta sagacia Gilbert Keith Chesterton (1874-1936), Meynell “differiva dalla maggioranza degli artisti più avanzati del suo tempo nel seguente dettaglio: rispetto a loro, era rivolta in senso contrario e avanzava nella direzione opposta”.

Forse proprio per questo, il suo intento di impregnare di cristiana e consolatoria responsabilità il “male necessario” di una guerra innescata per difendere il Belgio dall’aggressione tedesca, sceglie la scena esigente e profetica della Notte di Pasqua: una scena, questa, in cui l’esperienza penitente della Quaresima si sublima nell’avvento glorioso del Tempo Pasquale, a sua volta proteso verso il (manzonianamente) “rinnovator” e “placabile Spirto” di Pentecoste – quello che “brilla nel guardo errante / di chi sperando muor” nella vita quotidiana ferita dei nostri giorni difficili e, più ancora, sugli insanguinati campi di battaglia della Prima Guerra Mondiale.

Senza dubbio per questo, in Easter Night, la “notte” ha più volti. Ha, in primo luogo, quello dell’ambiente naturale dei “figli delle tenebre”, in cui risuonano “urlo di uomini” (v. 1) e “pianto di donne dolenti” (vv. 1-2): quasi danteschi ignavi che subiscono l’esperienza inconcludente di shout e cry promossi a sostantivi uncountable per indicare una paralisi antropologica, una frenesia che imprigiona nella rete del peccato.

Ha, inoltre, il volto paradossale di un “meriggio di tenebroso cielo” (v. 3): notte – quest’altra –  davvero apparentemente assurda, che, se trasforma il momento più luminoso del giorno in una sua ansiogena caricatura, in realtà, annuncia anche il Mistero straordinario che sta per manifestarsi e che travolgerà l’abitudinaria intelligenza dell’Uomo, frantumandone le consuetudini interpretative.

Ha, infine, il volto del “cuore della notte” (v. 9): traduzione – ahimè – legittima ma povera, questa, di un originale dead of night in cui il momento più profondo della notte – quello caratterizzato dai tratti più avversi alla vita umana, quasi “mortali” (maggiore imperturbabilità motoria e sonora, più impenetrabile oscurità, più estremo gelo, ecc.) – riesce a ospitare il Dono unico ed irripetibile della Resurrezione di Gesù Cristo, Via, Verità e Vita oltre ogni Getsemani della misera storia degli uomini.

Solo “dietro la pietra” (v. 12) del Sepolcro, cioè nell’“oscurità forzata” e nel “segreto” (v. 10), tutti i Getsemani presenti o implicati nel testo di Alice Meynell e – una volta ancora – rappresentati dall’universalità della veste uncountable e dall’indeterminatezza che deriva dall’assenza dell’articolo (nel testo originale e qui poveramente riprodotta), trovano senso e speranza di soluzione: siano essi quelli – anche graficamente – minuscoli della contingenza umana (“urlo” e “pianto”, v. 1; “fragore” e “ludibrio”, v. 4; “solitudine”, v. 5; “silenzio”, v. 6) o quelli maiuscoli e inimitabili del Vero Dio e Vero Uomo (“Morte”, “Potere”, “Forza”, v. 7; “Vita” e “Vittoria”, v. 8).

Solo dietro quella inanimata “pietra”, nella cornice di quella profondissima “notte”, di quella “oscurità forzata” e di quel “segreto”, l’indeterminatezza degli infiniti Getsemani dell’esistenza umana – di cui le guerre d’ogni sorta costituiscono il simbolo più sanguinante – trova salvifica determinazione e indubitabile salvezza nella totale, infinita (“completamente solo, solo, solo”, v. 11) ma vivificante Solitudine del Redentore.

Non a caso e con inflessioni metaforiche che riecheggiano quanto risuona in Easter Night, è proprio questa la certezza sulla quale Alice Meynell fonda la sua definizione della natura poetic (dunque, etimologicamente capace di fare, creare, trasformare et al. la realtà) dell’intellect, cioè – come recita l’autorevole Oxford English Dictionary – di quella “facoltà o somma di facoltà della mente o dell’anima grazie alla quale una persona conosce e ragiona”. Scrive, infatti, Meynell in una pagina del 1896 sulla poetessa inglese Elizabeth Barrett Browning (1806-1861): “l’intelletto è poetico, ma lo è l’intelletto convinto, l’intelletto nel mattino di una notte appartata, e nel placarsi di una tempesta ormai lontana. Le onde possono essere alte, ma i venti dovrebbero essere in pace”.   

 

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