Goffredo Buccini sul Corriere della Sera del 5 aprile, pur criticando il tono e i contenuti dell’intervento di Di Pietro contro Monti, riconosceva che è impossibile ormai non rendersi conto che siamo in presenza di un dramma collettivo di inaudite dimensioni. L’incubo antico della povertà interpella e tocca tutti noi e tuttavia non si può, secondo il giornalista citato, addossare al Presidente del Consiglio la responsabilità di questa catastrofe umana. Il riferimento ovvio è alla frequenza spaventosa di suicidi di piccoli imprenditori, di lavoratori e di anziani pensionati di fronte al fallimento di ogni loro prospettiva di futuro “economicamente normale”.
Il suicidio è un evento drammatico in una comunità e, come scriveva Pavese ne Il mestiere di vivere prima di abbandonarsi al gesto estremo, molte donne vi ricorrono nella solitudine disperata della loro vita domestica. James Hillman ha dedicato un bellissimo volume alla riflessione sul rapporto fra la crisi personale, che può colpire chiunque, e la terribile decisione di farla finita con questo mondo. È singolare che lo stesso Hillman negli anni in cui scriveva questo libro sottolineava che solo tre saperi particolari – il sapere filosofico, il sapere religioso e il sapere psicoanalitico – possono aiutare coloro che soffrono il mal di vivere ad elaborare il proprio dolore.
La diffusione di un fenomeno così drammatico, con tutto il carico di sofferenze su chi decide di sopprimersi e sul gruppo dei parenti e degli amici che subiscono il lutto di una persona cara, è un indicatore della profondità del malessere di quest’epoca che inutilmente ci sforziamo di esorcizzare. Chi precipita la propria vita nel nulla recide consapevolmente o non consapevolmente il legame di solidarietà che unisce un gruppo e dà a tutti i suoi membri il senso di una reciproca incapacità di sostegno affettivo. Il suicidio è sempre un fallimento, anche quando assume la forma del consapevole distacco dalla realtà maturato attraverso anni di solitudine mentale. Quando una persona che appartiene ad un gruppo di lavoro o di amici decide improvvisamente di togliersi la vita, in gioco non è soltanto il suo personale destino, ma l’evidente incapacità del gruppo di appartenenza di contenere il dolore psichico di colui che decide di lasciare il campo. Il suicidio può essere l’esplosione di una lucida disperazione in cui si prova il vuoto di un abbandono totale da parte di tutti coloro dai quali ci si aspetta amore e amicizia, ma è anche il segno drammatico della dissoluzione totale di quel “contenitore” che permette a ciascuno di noi di sopportare sofferenze e frustrazioni senza abbandonarsi all’assoluta negatività del proprio desiderio di morte.
La storia umana è ricca di racconti in cui si parla di varie forme di suicidi e di diverse motivazioni: la resistenza alle torture, la difesa della propria libertà, la testimonianza di un sacrificio per sottrarre altri ad un destino comune, la difesa di un segreto che non si vuole rivelare ma, in ogni caso, anche il suicidio eroico rappresenta un momento di catastrofe che lascia una ferita incolmabile nel tessuto sociale. Ogni epoca ha avuto il suo elenco di suicidi per le cause più disparate, come quelli conseguenti alle delusioni d’amore nell’ottocento romantico, ma ogni epoca ha un timbro che ne segna i connotati sociali e che esprime il senso collettivo di un disastro incombente, di una paura insostenibile.
Dobbiamo perciò scavare oltre le responsabilità di questo o quell’altro governo per cercare di capire le ragioni più specifiche e peculiari dell’accadere del suicidio nella società nella quale viviamo. A mio parere nella società del nostro tempo, in cui assistiamo a questo continuo notiziario e alle piccole biografie dei suicidi, non possiamo fare a meno di proporre ipotesi per un’interpretazione meno superficiale di ciò che accade in tante parti del Paese e in tante parti dell’Europa. I suicidi di fronte alla crisi economica e gli atti di follia omicida che scandiscono le nostre stagioni sono a mio parere il segno di una crisi della nostra civiltà e dei suoi presupposti etico-sociali. Certo, non c’è una correlazione causale tra la disfatta della politica, il declino dei partiti e delle organizzazioni di massa, e la solitudine disperata di un operaio o di un imprenditore, ma credo che non ci sia dubbio che nella società contemporanea si siano dissolti quei vincoli di appartenenza politico-sociale ad un partito, ad un sindacato o ad una chiesa che una volta ti facevano sentire meno terribile il vuoto dell’isolamento e l’insensatezza della tua giornata che, rottosi ogni equilibrio tra sé e il mondo esterno, ti precipitavano nell’ossessione dei pensieri più terrificanti.
Più che del governo Monti, io parlerei di una responsabilità della politica e delle élite del nostro Paese che non riescono più a fornire a nessun individuo le motivazioni per stare insieme agli altri per proporsi di costruire un futuro comune. In questi decenni di avventura neoliberista, il primato assoluto dell’economia finanziaria ha asciugato le risorse affettive e le possibili passioni di ciascuna persona. Come ricorda Paul Zweig nel suo celebre libro L’eresia dell’amore di sé, la crisi dell’impero romano distrusse il tessuto di motivazioni che tenevano insieme la Repubblica e, mentre il discorso pubblico diventava sempre più falso e finto, molti si rifugiarono nel discorso privato e nei linguaggi religiosi ed emotivi che non solo erano antiautoritari ma erano anche antisociali. L’Imperatore non riusciva più a garantire la lealtà spirituale dei suoi sudditi che cercarono così la via della salvezza in altre culture e infine nel cristianesimo. Si verificò allora una secessione generalizzata del popolo dai propri governanti che portò poi alla disgregazione catastrofica dell’impero e alla nascita di un nuovo mondo.
Oggi sono crollate le nuove divinità della globalizzazione, l’estensione del benessere e la liberazione dai vincoli del passato. Una nuova schiavitù incombe sulla vita di tutti giacché la perdita del significato del lavoro umano, nel modello di competizione universale, sembra destinare tutte le popolazioni delle aree più deboli ed emarginate ad una forma di schiavitù di tipo cinese, in cui il dispotismo della struttura tecno-economica condanna tutto il resto del popolo alla povertà e alla dipendenza. Le visite di Monti ai Paesi orientali e le strette di mano ai dirigenti cinesi e coreani sono uno spettacolo che dovrebbe turbare la coscienza di tutti gli europei. Dopo la predicazione dei diritti umani e le mille lotte fatte da giovani studenti, dagli Stati Uniti all’Europa, per il riconoscimento della dignità delle persone, i nostri capi di Stato concludono affari commerciali, assolutamente indifferenti alla condizione reale della massa degli abitanti della Cina e della Corea.
Geminello Alvi ha scritto delle pagine terrificanti sul dispotismo orientale e sulle pratiche schiavistiche di questi nuovi regimi totalitari che si spacciano per regimi comunisti. Eppure, sulla stampa italiana ed europea, la politica di alleanza commerciale viene osannata nonostante rappresenti l’esatto contrario dell’ideologia liberale e del modello economico liberistico in base al quale poi si condanna la Grecia al fallimento e alla miseria. Se si scorrono le cronache dei dirigenti cinesi e coreani c’è da restare allibiti per l’ipocrisia dei commenti che plaudono ad una cooperazione proprio con le potenze che stanno cercando di conquistare un potere egemonico sull’intero pianeta, attraverso lo sfruttamento del lavoro.
È in questo clima di finzione che appare davvero vano il tentativo di alcuni veterani delle lotte politiche italiane di costituire un nuovo soggetto politico che sanzioni la fine dei partiti e dei sindacati ufficiali e che dia vita ad una forma nuova ed inedita di democrazia partecipata. Su Il Manifesto di giovedì 5 aprile, Rossana Rossanda (della quale non sono un ammiratore incondizionato) ha giustamente irriso a questo ennesimo tentativo di inventarsi sulla carta un nuovo soggetto politico che non nasce dalla realtà di lotte territoriali e di quartiere ma da astruse concettualizzazioni sulla rilevanza dei nuovi beni comuni da affidare alla gestione diretta degli utenti (come l’energia e le autostrade) e di un nuovo diritto pubblico che introduca forme di democrazia diretta. Rispetto alla drammaticità della situazione attuale del conflitto dei poteri, le proposte del nuovo soggetto politico mi danno la sensazione di chi vuole combattere l’arrivo dei marziani con le bombolette del Ddt, come se si trattasse di una straordinaria invasione di zanzare.
Il tema della riorganizzazione sociale della democrazia è un tema cruciale, giacché la crisi della politica è anche una devastante crisi democratica, ma è veramente velleitario pensare che questa crisi possa essere contrastata attraverso facebook e twitter, e non già invece dalla capacità di creare in ogni territorio comitati di tutela e di difesa degli interessi dei lavoratori dei cittadini. Solo lotte concrete per costruire una scuola o per impedire il saccheggio urbanistico di una zona ancora integra possono fare emergere nuove forme dello stare insieme, individuando mete e obiettivi intermedi, capaci di dare senso alle mobilitazioni sociali. Ma tutto questo non può avvenire con l’unico scopo distruttivo di cancellare dalla storia dell’Europa il ruolo dei partiti e dei sindacati, giacché solo una democrazia organizzata attraverso i corpi intermedi può sviluppare un nuovo senso di appartenenza capace di ricostruire i legami sociali distrutti dall’offensiva neoliberista.
La denuncia della indecente diffusione della corruzione delle amministrazioni dei partiti e dei loro dirigenti è più che sacrosanta, ma non si è mai posto rimedio a questo problema che riguarda la cultura diffusa del Paese senza una rimessa in campo di conflitti veri e di lotte sociali capaci di modificare gli equilibri territoriali del sistema dei poteri. Non credo che debba sorgere accanto al Pd una lista civica di cittadini buoni e virtuosi, ma occorre dare battaglia dentro ciò che esiste perché siano rapidamente sostituite le figure logorate da anni di presenza pubblica inefficace.
La malattia della politica riguarda, a mio parere, in modo particolare la sinistra perché è sempre l’opposizione al sistema di potere vigente a dover dar prova di alternative convincenti. Questo però non significa affatto sovrapporre alla nomenclatura attuale una nuova nomenclatura di gruppi di pressione che reclamano legittimazione politica dal solo fatto di autoconvocarsi in ipotetiche assemblee fondative. Il modello delle leghe operaie e delle associazioni di mutuo soccorso che sostengono gli operai in lotta resta ancora un punto di partenza insuperato. Come ha scritto il vecchio Panikkar nelle sue riflessioni sulla politica, non si tratta di fare il bene, ma di fare bene, cioè a dire si tratta di mettere in opera con i comportamenti pratici le idee in cui si crede.
Nell’epoca di un cambiamento catastrofico come il nostro, non ha alcun valore tutto ciò che fugge dalla realtà e non ha senso ipotizzare a parole magnifici traguardi per una società postconflittuale che sappia gestire pacificamente i beni comuni e la tutela del lavoro. Come sempre, per le idee bisogna lottare praticamente dando l’esempio con la propria vita e interpretando le contraddizioni reali come spazio per costruire nuovi passaggi verso il futuro. Il tema della crisi della politica, della crisi della sinistra e della crisi economica va letto oggi come crisi sociale del tessuto connettivo della società italiana, di cui sono vittime principalmente i ceti medi produttivi e i lavoratori autonomi e dipendenti: è di questa realtà sociale, psicologica ed economica che bisogna capire la tendenza verso il cambiamento, trasformando le aspirazioni individuali in risorse collettive capaci di incidere concretamente sull’equilibrio dei poteri reali nel territorio e nel Paese.
Sarei molto colpito se tutti coloro che come me pensano che siamo di fronte ad una crisi epocale che tocca le condizioni materiali dell’esistenza di migliaia e migliaia di uomini e donne, promuovessero una raccolta di fondi per la costruzione di un piano di aiuto ai giovani disoccupati e di sostegno concreto alle famiglie che vivono le nuove difficoltà di una vita miserabile ed incerta. Credo sempre che il futuro è nelle mani degli uomini se chi ha il privilegio di parlare in pubblico si sforza di parlare con verità e coscienza critica.