Un pericolo in cui oggi la cultura diffusa, forse anche quella di ispirazione religiosa, rischia di incorrere, è un eccesso di un curioso atteggiamento, che non si saprebbe definire meglio che come deferenza o reverenza, nei confronti della scienza. Non si fraintenda: il rispetto della scienza è opportuno, anzi auspicabile; ma la reverenza inappropriata che caratterizza, in maniera un po’ schizofrenica rispetto a ostilità che pure sono frequenti, l’atteggiamento dominante rispetto ad essa, può fare danni gravissimi.
Non è solo che per definizione la reverenza, almeno da parte di chi si vuole interno alla tradizione religiosa, andrebbe riservata ad altri oggetti; e soprattutto che tendenzialmente rivela un atteggiamento fideistico lontanissimo dai criteri di libero esame e ragione critica che vengono ufficialmente proclamati. Il problema è che molto spesso la scienza in questione non è altro che scientismo. Un’ideologia onnicomprensiva ed onniesplicativa che solo gli ingenui potrebbero credere tramontata col XIX secolo positivista: anzi, nella crisi di altri riferimenti ideologici potenti rischia di insediarsi come unica visione del mondo superstite. Ora, lo scientismo, come tale, non è affatto disponibile a dialogare seriamente con altre visioni del mondo, e trae dal complesso di inferiorità altrui nuove ragioni di superbia.
Il discorso è tutt’altro che astratto o generico. Ad esempio, chiunque anche solo sfogli le pagine culturali dei giornali non può non restare colpito dalla neuromania (così definita qualche tempo fa da Piattelli Palmarini in un bell’articolo nel Corriere della Sera, sulla scorta dell’istruttivo libro omonimo di Paolo Legrenzi e Carlo Umiltà) contemporanea. Neuroetica, neuroestetica, neuroteologia, neurodiritto… l’elenco è incompleto e senza dubbio sono alle porte nuove fantasiose combinazioni. Solo la parallela e analoga moda delle spiegazioni evolutive può essere paragonabile: abbiamo infatti anche un’etica evoluzionistica, una teologia evoluzionistica, etc. Siamo travolti da una massa sconsiderata di convegni, pubblicazioni, articoli di giornale la cui problematizzazione è inversamente proporzionale al tono messianico.
Il punto non è tanto la batteria di assunti discutibili, generalmente ignari delle critiche interne alla tradizione scientifica stessa che è possibile muovere nei confronti di tali tesi. A mio avviso si tratta soprattutto del rischio di una facile scappatoia che taglia fuori tutta la fatica di un’autentica etica, estetica, etc.: della riflessione antropologica in generale.
Un esempio. Definire la moralità in termini di ossitocina, come ha fatto Sandro Modeo in un recentissimo contributo (è difficile stare dietro questi interventi, che si succedono con una frequenza degna di miglior causa) nell’inserto Lettura, sempre nel Corriere della Sera, sulla falsariga dell’ennesimo libro di Patricia Churchland sul tema, è operazione di ingenuità teorica sconcertante. Il problema propriamente umano non è la generica affettività data dall’ossitocina, che è ovviamente caratteristica anche degli animali superiori come può verificare chiunque osservi un gruppo di scimmie o il proprio cane; ma come estendere comportamenti del genere rispetto agli estranei o addirittura (inaudita pretesa cristiana) ai nemici.
In effetti, è solo al livello del difficile impegno, tutt’altro che ormonalmente garantito, nei confronti della responsabilità, della giustizia, o del perdono, che si apre la dimensione propriamente umana ovvero libera e dunque la dimensione morale. Potremmo perfino sostenere, con qualche buona ragione, che è solo in una dimensione provocatoriamente innaturale (contro i nostri istinti egoistici, contro la tendenza a privilegiare coloro che ci sono più vicini rispetto agli estranei, etc.) che si può parlare di moralità, anche se questo radicalismo dal sapore kantiano rischia di tagliar fuori, a sua volta, parte delle dimensioni antropologiche effettive.
Il fatto è che proprio l’impegno morale assolutamente personale e libero è ciò che viene negato. In ultima analisi, quello che tali riduzionismi, in veste ormonale o altrimenti improntati, propongono è un ridimensionamento molto grave della dimensione della libertà, ridotta, almeno nei casi filosoficamente più consapevoli, ad un’apparenza da demitizzare o nella migliore delle ipotesi a un’utile finzione. Si tratta di un asserto teorico perfettamente rispettabile – purché poi non si pretenda di fare della stessa libertà il faro delle nostre rivendicazioni etiche o delle richieste di diritti. Se il determinismo (ormonale o di altro genere) è vero, non ha senso rivendicare di essere, e sempre più voler essere, liberi.
Ancora una volta: non si fraintenda. I risultati scientifici sono pertinenti e rilevanti tanto in termini conoscitivi quanto di eventuali risvolti terapeutici. Solo che derivare da essi facili spiegazioni teoriche totalizzanti non fa altro che aggiornare tentazioni riduzioniste da cui non si è mai abbastanza liberati. Per fortuna, anche numerosi scienziati sono scettici nei confronti di tali pretese. Lo stesso Benjamin Libet, di cui sono notissimi i risultati sperimentali che sembrano mettere in discussione la libertà umana, ne dava poi una lettura tutt’altro che lineare e semplicistica.
Insomma, pretendere di derivare direttamente da asserti scientifici delle tesi o addirittura delle certezze teoriche rispetto a questioni del genere, è operazione irrimediabilmente fallimentare: e non solo perché tali asserti scientifici hanno ancora uno statuto molto provvisorio, ma perché si tratta di operazione teoricamente primitiva. Il passato della filosofia è da sempre ricco di siffatti tentativi, irrisi dai pensatori più consapevoli. Che oggi molto spesso vengano presi sul serio è indice sconfortante del contemporaneo stato dell’arte.
E questo ci porta alla nota specifica rispetto alla cultura religiosa. Vi è un problema che per brevità e in mancanza di meglio chiamerò di complesso di inferiorità nei confronti della cultura scientifico-tecnologica (e in generale della cultura che si vuole aggiornata). Tale complesso rischia di generare due reazioni speculari, entrambe difensive: un’ostilità preconcetta e ignara, da un lato; e dall’altro una ingenua reverenza, come si diceva, nei confronti delle ultime novità della ricerca scientifica.
Per fare un esempio un po’ differente: è piuttosto evidente che il successo di Vito Mancuso è legato all’abile miscela di aggiornamento scientifico di stampo “evoluzionistico” e suggestioni di tono spirituale (per inciso: abissalmente lontane dalla carnalità cristiana e dal peso inaggirabile del peccato ovvero del limite). Era già la formula discutibile di Teilhard de Chardin, l’autore a cui Mancuso è più vicino.
Non ho qui spazio per intraprendere un’analisi delle tesi di Mancuso. Mi limito ad osservare, in linea con quanto notato finora, che mi pare in generale tutt’altro che una buona idea attendere dalla scienza la legittimazione delle opinioni filosofiche o delle opzioni etiche. Al contrario: lo scienziato, il filosofo, il credente, l’ateo, etc., sono tutti assolutamente sullo stesso piano democratico e comunicativo, e di fronte alla stessa radicale difficoltà della scelta, nel momento in cui si trovano di fronte alle visioni ontologiche o alle valutazioni morali. E ciò perché, come abbiamo visto, derivare conseguenze al livello antropologico a partire dai risultati scientifici, è di norma una tentazione da rifiutare.