Dieci anni fa, il 10 maggio 2002, finiva quello che viene ricordato come l’assedio della Natività. Erano gli anni della seconda Intifada, Betlemme – come Ramallah, Nablus, Jenin e altre città della Cisgiordania – era stata invasa dall’esercito israeliano durante l’operazione “Scudo di difesa”, una risposta al crescendo di attentati terroristici delle settimane precedenti.
Betlemme venne occupata per più di centocinquanta giorni, posta sotto coprifuoco, le strade che tanti pellegrini avevano attraversato tante, tantissime volte, trasformate in campo di battaglia e ostaggio dei blindati delle Forze di difesa israeliane.
Sono le tre del pomeriggio del 2 aprile, è martedì, quando la Basilica della Natività diventa rifugio e prigione per più di duecento palestinesi. Molti sono armati, militanti di gruppi di resistenza diversi – Hamas, la Jihad islamica, le Brigate al-Aqsa – ma ci sono anche civili disarmati, qualche ragazzino. Una decina sono feriti, due in modo grave.
La Basilica della Natività è uno dei luoghi più importanti per la cristianità e il più antico tra i santuari della Terra Santa, risparmiato nei secoli da numerose distruzioni che hanno riguardato invece molti altri luoghi legati agli eventi cristiani. I frati francescani ne sono custodi da otto secoli ma, come succede anche nella chiesa del Santo Sepolcro a Gerusalemme, devono spartire questo privilegio con altre comunità cristiane. Qui, greci e armeni ortodossi. I tre conventi sorgono a ridosso della Basilica ed è dalla porta di quello abitato dai francescani che il gruppo di palestinesi si è introdotto senza bussare nell’antica chiesa, subito accerchiata dall’esercito israeliano. Iniziano i giorni dell’assedio, tentanove in tutto.
Fuori l’esercito, dentro i combattenti palestinesi, i monaci greci e armeni, la comunità dei francescani e quattro suore.
“Non eravamo obbligate a restare, la nostra madre generale, in Italia, ci aveva lasciate libere di scegliere”. Suor Nunziatina, da Benevento, religiosa francescana addetta alle cucine del convento di Betlemme, ha scelto di restare e con lei le altre sorelle: “Abbiamo scelto di rimanere con i frati, tutte insieme lo abbiamo deciso. Ci siamo dette: ‘proprio adesso hanno bisogno di noi, non possiamo andare’”.
“Dentro la Basilica si confondeva il giorno con la notte – racconta padre Amjad, francescano della Custodia, che nel 2002 era il parroco di Betlemme. Si cercava di mangiare qualcosa, quello che c’era… passavamo spesso dal convento nella Basilica per incontrare queste persone che erano dentro, parlare con loro. E poi parlavamo tra di noi, pregavamo di più… La cosa più bella che è successa in quei trentanove giorni è l’ecumenismo che abbiamo vissuto noi francescani con gli ortodossi… riuscire a vivere insieme, con tutte le difficoltà, partecipare ai momenti del cibo, parlare…”.
Fuori, le trattative per una soluzione procedono lente, e così anche i molti tentativi di mediazione. Su Betlemme è fisso lo sguardo di Giovanni Paolo II, che in molte occasioni, in quel mese di aprile, invita alla preghiera per la città della nascita di Gesù, chiedendo di “far tacere le armi e far sentire la voce della ragione”. Nel “Regina Caeli” del 21 aprile il papa parla della Natività, “teatro di scontri, di ricatti e di insopportabili scambi di accuse. Quel luogo, e tutti i luoghi santi, siano prontamente restituiti alla preghiera e ai pellegrini, a Dio e all’uomo!”
Dopo trentanove giorni, la bella notizia dell’accordo. È il 10 maggio 2002. La Basilica si svuota, con la condizione che i tredici rifugiati considerati più pericolosi da Israele vengano esiliati. Altri 26 saranno trasferiti nella Striscia di Gaza. Per i francescani, che pure sostengono di non essersi mai sentiti presi in ostaggio, è in qualche modo un inizio. “Ho ringraziato il Signore, quel giorno, per averci donato la possibilità di ricominciare un nuovo cammino”. A dieci anni da quel 10 maggio questo è il ricordo di padre Amjad.
Un nuovo cammino che non devia dalle orme tracciate in secoli di presenza in Terra Santa e calcate anche nei giorni difficili dell’assedio, rimanendo custodi di quel luogo ma custodi soprattutto di una proposta di concreta testimonianza verso l’umanità che abita questa terra, così come verso gli uomini che dieci anni fa occupavano la Basilica.
A dieci anni dall’assedio, la testimonianza incarnata dai seguaci di Francesco d’Assisi non cessa di essere essenziale per Betlemme, che oggi è circondata dal muro con cui Israele ha diviso i propri territori della Palestina. Barriera fisica e psicologica che ha cambiato radicalmente la vita degli abitanti della città: per raggiungere Gerusalemme, lontana solo pochissimi chilometri, occorre attraversare i check point e la possibilità è aperta solo a chi è in possesso di un permesso rilasciato dall’autorità israeliana. La disoccupazione è cresciuta, e così la povertà. Chi ne ha avuto la possibilità ha scelto di emigrare. Eppure la sfida è proprio quella di restare, soprattutto per i cristiani ormai ridotti a piccola minoranza.
Una sfida anche per la Custodia francescana, che vive la missione di custodire non solo le pietre che portano la memoria degli avvenimenti cristiani, ma anche le “pietre vive” che abitano questa terra e a cui i frati si dedicano con le tante opere sociali ma soprattutto con l’inesausta, costante, gratuita presenza.