La de-figurazione del volto, lo strazio del corpo che Bacon ci lancia contro, ha il potere di risvegliare l’orrore di un reale che normalmente la pittura si assume il compito di render vivibile. Può non piacere. Può non piacere che il buco della carne in cui si precipita un non senso – redimibile ma irriducibile – dell’esistere venga affermato e reso presente. Da qualche parte sembra far male al ben pensare, al pensare che si rappresenta come ormai redento, trasfigurato per sempre, senza ombre. Ma è davvero così? Un recente articolo di Giuseppe Frangi pone alcune riflessioni che mi paiono sottolineare – a partire dal corpo baconiano come figura di un reale devastante – il rapporto cruciale tra libertà, domanda, redenzione.
Mi è spesso capitato di avvertire con grande disagio il venire da una cultura cattolica sospettosa del “postmoderno”, l’impaurita ritrosia dinanzi a qualcosa che esce dalla misura di un immaginario “buon” cattolico, un ritrarsi da un pensiero del negativo. Come se pensiero del negativo potesse – per una sorta di contagio – divenire pensiero negativo, in immaginaria opposizione a un “ottimismo dei fini” direttamente connesso con un “positivo” della realtà, riparo contrapposto a un vuoto. Una specie di horror vacui, che non lasci spazio a mancanza. Ma non potrebbe insinuarsi qui il sospetto che così – in fondo in fondo – il vuoto, il niente, il nihil, l’abbiano già da sempre vinta? e per questo un pensiero del pieno dev’essere sempre all’erta per vigilare contro il dubbio nichilista, il dubbio come nichilismo, il dubbio in quanto separato dalla questione della fede.
In realtà, metodico o scettico che sia, dubbio non è rifiuto. Dubbio dice il dramma di una divisione a partire dalla quale il pensiero si umanizza in un interrogativo assumibile, particolare, che perciò può farsi efficace cammino dell’esperienza. Cartesio è solo l’altra faccia di Pascal. Una militante e riflessiva giovane di fede dichiarava – senza cogliere il nichilismo di cui era “portatrice inconsapevole” – di sperare di non incontrare in futuro mai niente che non potesse trovar posto nello zainetto della sua fede. Prudenza od oscura convinzione che in realtà qualcosa possa davvero esser estraneo alla dinamica redentiva?
I baratri vorticosi, ombre caravaggesche con cui Bacon de-forma e buca i volti, quasi spingendo i loro brandelli al di là della tela, mostrano – è proprio il caso di usarla questa parola bifronte – mostrano-mostrificano una nascosta ma nemmeno troppo de-formità, strutturale, che fa dell’essere umano un mistero. Mistero dell’iniquità in quanto indissolubile da quello della salvezza. Come pensare che da questa unione mistica qualcosa resti davvero fuori, abbandonato “là dov’è pianto e stridore di denti”? Quel che resta fuori non è concepibile come davvero ostile, ostacolo (perfino la bestemmia non riesce ad esserlo davvero) se non nei termini di un grigio pericoloso autosufficiente davvero disumano rifiuto della domanda, degna solo del grande inquisitore dostoevskijano.
Il cardinale di Siviglia è infatti l’uomo che già sa, il grande vecchio previdente, provvidente pedagogo, che – ad occhi ben aperti – ha dedotto che l’esperienza dell’uomo è ingovernabile se sospesa al rischio sorprendente e incalcolabile della sua libertà, e dunque occorre che sia chiara prima quale debba essere la linea di demarcazione tra l’ordinato benessere dell’uomo e il suo malessere, per il quale “bene-essere” – inevitabilmente comune e universale – decidere il dentro e il fuori, il di qui e il di là, il bene e il male, sono questioni di pulizia etnica, al fine di espungere, ridurre, coprire la ferita della contraddizione umana e del suo dramma singolare: la libertà che un Folle un bel giorno si permise di mettere a capo della Sua insostenibile azione. E come osa ora Egli ritornare ancora e ancora infiammare per quella Sua insostenibile libertà il cuore del popolo, rendendolo ingovernabile? Al contrario del Dio agostiniano, intimior intimo meo, che segna il più intimo dell’esperienza come un ritaglio interno ignoto, sospeso, irriducibile, il cardinale di Siviglia semplicemente ha già tracciato il confine netto della sua “benefica” azione pedagogica: al di là della Presenza-di-Lui, che a suo tempo ha fin troppo agitato i cuori e le menti, e che va quindi subito imprigionato, inquisito. Si riduca l’inutile libertà, il perfido dono che ad ogni costo Lui si ostina a offrire all’esperienza umana e contro ogni saggio invito dello “spirito possente” (a cominciare dai pressanti inviti che gli fece sul pinnacolo del tempio)… Occorre invece far restare il popolo al di qua della scelta, sempre pericolosa, al di qua di questa libertà così irrispettosa della vera debolezza degli uomini. Al di qua, rassicurante, sta il realismo pedagogico del pane assicurato, dell’oblio pacificante, dell’utile forza del potere, della sottomissione gioiosa al comando dei capi, loro sì veri martiri, che si sono assunti la dolorosa menzogna in cui trattengono il popolo, ma per il suo bene!, menzogna e patto diabolico che permettono il permanere di ciascuno in una media universale felicità, senza ferite e non increspata da nessun dubitoso interrogativo, non inquieta di nessuna mancanza.
La pittura baconiana consiste invece nello scavo della carne oscura che oscenamente sanguina, nel corpo contorto su un dolore sguaiato, in quanto precisamente disfa e disillude la speranza di una compostezza universale, perfino nel piccolo sollievo d’una pacificante cicatrice (vedi Edipo, che dopo secoli si trascina il piede ancor fasciato e sanguinante), quando l’esperienza del dolore e del trauma aspirano, deformano, rigano, smembrano l’umano, ne fanno emergere il grido muto da una bocca-buco, à la Munch, come ricerca – forse – di uno svuotamento salutare che permette il sorgere di una domanda. Della compostezza classica resta il guscio, ancor più inquietante in quanto reso vacuo dal dolore incomunicabile, dall’esperienza tenebrosa di solitudine e devastazione propria dell’uomo novecentesco (vedi la meditazione sull’Innocenzo di Velasquez, con la bocca spalancata che invoca da dentro una gabbia di orrore).
Dunque il credente nel quadro baconiano dovrebbe esser reperibile non tanto dal lato del guardante – colui che, secondo la provocazione di Frangi, avrebbe da distogliere prudentemente lo sguardo da questi buchi nullificanti eppur prepotentemente presenti – ma dalla parte del guardato o meglio in entrambi. Il credente è lui stesso da qualche parte anche incredulo e dunque si trova crocefisso alla/dalla tela baconiana proprio nella sua carne che domanda, nella sua angoscia incompiuta di redenzione, in quanto essa non può che ritrovarsi semper reformanda. “…perché mi hai abbandonato?”: solo per puro caso sono le ultime parole pronunciate da un Uomo-Dio?
La vita è mista, la salvezza da domandare ogni volta, anche se – o proprio perché – da sempre data. Così data che, stricto sensu, la morte di un Dio non era necessaria per renderla operativa. Invece questo Ostinato Importuno della storia, eccome se ancora la vuole questa Sua libertà! Il cardinale di Siviglia sa che è proprio essa a impedire il disegno di pacificazione universale in atto. Meglio per gli uomini nemmeno sapere – dice al suo Prigioniero – “a quali orrori di servitù e di turbolenza li conduce la Tua libertà”. “Noi non siamo con Te, ma con lui, ecco il nostro segreto! Da lungo tempo non siamo più con Te, ma con lui, sono ormai otto secoli. Sono esattamente otto secoli che accettammo da lui ciò che Tu avevi rifiutato con sdegno, quell’ultimo dono ch’egli Ti offriva, mostrandoti tutti i regni della terra: noi accettammo da lui Roma e la spada di Cesare e ci proclamammo re della terra, gli unici re, sebbene non abbiamo ancora avuto il tempo di compiere interamente l’opera nostra. Ma di chi la colpa? … ma noi raggiungeremo la mèta, saremo Cesari, e allora penseremo all’universale felicità degli uomini. Tu però già allora avresti potuto accettare la spada di Cesare. Perché ricusasti quest’ultimo dono? Accogliendo questo terzo consiglio dello spirito possente, Tu avresti compiuto tutto ciò che l’uomo cerca sulla terra, e cioè: a chi inchinarsi, a chi affidare la propria coscienza e in qual modo, infine, unirsi tutti in un formicaio indiscutibilmente comune e concorde, giacché il bisogno di unione universale è il terzo e l’ultimo tormento degli uomini”.
Considerazione folgorante : di che cosa va in cerca l’uomo con stupefacente perseveranza se non di un padrone unico? Che con il suo comando intriso di sapere saturi ogni incertezza, esenti dall’esercizio quotidiano del giudizio (della libertà), si faccia garante del rischio sempre spropositato dell’esperienza. “E sempre in nome della libertà! – dice il Cardinale al suo Incarcerato – Io Ti dico che non c’è per l’uomo pensiero più angoscioso che quello di trovare al più presto a chi rimettere il dono della libertà con cui questa infelice creatura nasce”.
Un giorno una piccolina, ormai capace malgrado l’età precoce di discernere e volere, domanda “Mamma, ma i ladri vanno in chiesa?” : prima apertura personale alla forza – e al fascino – del paradosso cristiano, al suo strano ethos, in cui “male” non è in opposizione al Bene. Male di “poveri cristi”, esso stesso zoppicante. Giuda non è dannato dal tradimento divino, ma dalla cancellazione luciferina di un perdono per lui.
Lasciamo allora che Bacon lanci – come può, come tutti facciamo – l’aggressione della sua domanda alla/dalla tela, perché più il grido sgraziato dei suoi folleggianti deformi sarà forte, meno gli Inquisitori d’ogni tempo potranno cancellare il paradosso grazioso della libertà come presenza, presenza dell’orrore di un mancamento di cui farsi responsabili, assumersi il rischio. Grazie a questo orrore figurabile, Bacon ci riserva anche un vantaggio, piccolo ma non trascurabile : le sue scimmie umane difficilmente saranno riducibili alla pubblicità di un caffè, pur “paradisiacamente” buono…
È di questo riduzionismo da gadget che una “estetica teologica” – come divina bellezza della forma – sicuramente oggi soffre, non delle voragini baconiane, allusioni – forse – a un nihil che non obstat.