Secondo articolo di Danilo Zardin dedicato alla visione della storia di Christopher Dawson. Il primo articolo è uscito con il titolo LETTURE/ Dawson, quando esaltare (troppo) il cristianesimo fa male alla ragione.
Commentando l’analisi di Christopher Dawson sul destino dell’Europa contemporanea in rapporto alla sua antica radice cristiana, siamo arrivati a discutere di come egli ci restituisca il tentativo di sintesi storica identificato nelle luci della civiltà medievale, presto capovolta nel suo rapido declino. Si è trattato di un esperimento riuscito di completa trasfigurazione del mondo umano in senso cristiano? Sempre e dovunque, a ogni livello, con la stessa intensità e luminosa, universale coerenza? E prima ancora, è realistico pensare di poter ricondurre esclusivamente a una genesi cristiana il pluralismo articolato dei materiali confluiti insieme nel modellare il mondo dell’Europa medievale e le sue sotterranee eredità persistenti?
Da tempo sappiamo, piuttosto, che il cristianesimo stesso non volle, fin dall’inizio, edificarsi solo sulle proprie basi autonome: la nuova religione di Roma fece tesoro dello splendido patrimonio ereditato da Gerusalemme (Vecchio e Nuovo Testamento riuniti insieme, in dialogo tra loro) e la fede conquistatrice che ne venne fuori si appropriò della lingua plasmata dalla ragione filosofica di Atene per tradurre in discorso e preghiera il proprio amore per il Dio uno e trino rivelato nella persona di Cristo. Al centralismo cristiano univoco di Dawson oggi forse è storicamente preferibile lo schema ternario di autori come Brague (citiamo almeno: Il futuro dell’Occidente. Nel modello romano la salvezza dell’Europa). Quando, nel cap. II de Il dilemma moderno di Dawson, vengono delineate “le principali tradizioni che hanno contribuito alla formazione della cultura europea”, dell’umanesimo classicista greco-latino non si fa nemmeno parola (ma la filosofia e il diritto dell’Occidente medievale e moderno allora come li spieghiamo?), così come si tace del debito con l’ebraismo, di cui pure i cristiani si riconoscono ormai “fratelli maggiori” (si veda, solo per fare un esempio, il geniale Daniélou). Nello stesso tempo, sono sostanzialmente espunti dalla cornice l’apporto germanico, quello asiatico-orientale e ovviamente l’elemento arabo-islamico, che invece si è fatto sentire soprattutto sui contrafforti mediterranei della cristianità tradizionale, agendo anche come risoluta forza antagonista.
Del resto, se si ha la pazienza di scavare nel testo di Dawson in tutte le sue pieghe, si scopre che qualche dubbio sulla limpida esemplarità dell’incarnazione storica del cristianesimo conosciuta dalla civitas medievale anche lui arriva a nutrirlo: per esempio (cap. V, conclusivo) quando rivendica la “profonda differenza” che separa la purezza di un ordine religioso cristiano dalla sua traduzione in sistema organizzato temporalmente, criticando la pretesa di restaurare il primato dell’unanimismo confessionale “per ragioni politiche” o di ridurre il cristianesimo a una “religione civile” (obbligatoria, di Stato: qui Dawson polemizza anche contro l’“assolutismo religioso”, cita De Maistre e invoca la possibilità di conciliare l’aspirazione alla democrazia moderna dei diritti e delle libertà dell’individuo con il restauro dell’unità “spirituale” dell’identità europea, che non mi sembra esattamente una forma di fanatismo neo-medievalista).
Al di là della possibilità di stabilire quanto di “puro” cristianesimo si è realizzato nella vicenda storica dell’Occidente europeo, agli inizi del suo cammino, l’aspetto decisivo che risulta oggi necessario recuperare è il coraggio di misurarsi in modo obiettivo, e non ideologicamente precostituito, sulla vecchia dicotomia che contrappone il Medioevo cristiano e il mondo moderno come due mondi completamente separati. Il dualismo che esalta, da una parte, la ricchezza di una fede dispiegata così diffusamente nel mondo al punto da inglobarlo, in contrasto con la povertà del laicismo che l’ha respinta ai margini nelle derive degli ultimi secoli, potrebbe essere riformulato passando a una lettura dinamica dell’incarnazione della coscienza cristiana interpretata come missione nel mondo incessantemente da riprendere e da rilanciare, mai esaurita in una sorta di Paradiso anticipato in terra né mai totalmente contraddetta fino al punto di scomparire dall’orizzonte e di essere liquefatta riducendosi al grado zero. Questa logica della missione protesa verso la trasformazione, sempre imperfetta e parziale, dell’uomo e della società che egli costruisce intorno a sé si ricollega al secondo risvolto su cui invita a riflettere il discorso abbozzato da Dawson in merito alla vocazione storica dell’Europa moderna, alla sua unità interna e alla tutela del suo bene comune.
La ricetta di Dawson si inscrive nella proposta di ricostruire dal basso una nuova “società cristiana”. Si tratta, per lui, di rifare dell’Europa una nuova “cristianità” omogenea e coerente, per altro pienamente innestata, con i suoi valori e la sua identità specifica, nella politica, nell’economia e nella visione del mondo dell’età moderna, ancorata al rilancio della dimensione “spirituale” come pilastro per erigere un ordine più stabile, più giusto, più pacifico e fraterno.
C’era un nobile lato utopico, oltre che un’ambiziosa carica di progettualità, in questo genere di approcci che per tutta la prima metà del Novecento (e poi ancora oltre) ebbero largo seguito in gran parte dell’intellettualità di matrice cristiana (e in modo particolare cattolica), da un estremo all’altro del continente. Ma oggi il modello di una nuova cristianità “spiritualizzata” resta pienamente attuale? È la strada della riconquista dell’egemonia quella che la fede deve imboccare per offrire la sua risposta all’ansia di verità e di salvezza del mondo? Interrogarsi sui problemi che questi interrogativi sollevano porta a ragionare inevitabilmente su cosa sia diventato oggi il mondo secolarizzato ultra- o post-moderno. La desacralizzazione della società moderna è un processo reversibile, oppure essa definisceil contesto obbligato nel quale le fedi e i soggetti religiosi sono ormai chiamati ad agire per portare il fermento della loro forza civilizzatrice?
Bisogna “cristianizzare” il potere e l’etica collettiva, oppure la storia ci costringe a competere, con tutta la ricchezza del nostro bagaglio di umanità e di sapienza del vivere, fianco a fianco con gli altri soggetti portatori di identità e di strategie diverse, dentro lo spazio aperto di una società “laica” in senso plurale, che invece di diventare il deserto dell’omologazione consumista potrebbe tornare a rigenerarsi come il luogo del confronto e della costruzione comune, per restituire all’uomo il dominio della potenza e della ricchezza che egli ha saputo creare muovendo dalle sue antiche radici irrorate dalla ricerca spasmodica dell’Infinito?
Oltrepassando Dawson e le sue matrici inevitabilmente datate di pensiero, possiamo arrivare ad accettare pienamente l’idea (per esempio: ratzingeriana) che non esista solo una laicità distruttiva e anticristiana. Ci può essere oggi, fuori da una “cristianità” politico-sociale decaduta e dissolta forse per sempre, una laicità intesa come lo spazio distinto e specifico del mondo secolare con cui lo spazio ecclesiale deve interagire senza confondersi e senza mai, d’altra parte, separarsi del tutto: una laicità post-ideologica, in un certo senso neutra o “positiva”, continuamente da rimodellare e da rinegoziare nei suoi indirizzi e nei suoi contenuti, in cui anche il cristianesimo, o i laici cristiani in quanto cittadini a pari titolo degli altri – Deus charitas est, 29 – mantengano tutto il loro ruolo di minoranza creativa investita di responsabilità per il bene generale dei propri simili. Concorrendo all’edificazione di un mondo giuridico-politico e di un universo sociale che non potranno mai esaurire in sé la sempre rifiorente ricchezza dei segni e delle anticipazioni di un divino desideroso di rendersi visibile in mezzo agli uomini, per farsi accogliere da loro in quanto soggetti viventi.
(2 – fine)