Dolente e severa la lettera di Julian Carron sugli scandali che hanno coinvolto autorevoli esponenti di Cl in Lombardia: “se il movimento di Comunione e Liberazione è continuamente identificato con l’attrattiva del potere, dei soldi, di stili di vita che nulla hanno a che vedere con quello che abbiamo incontrato, qualche pretesto dobbiamo averlo dato”; e di una sincerità che ha pochi precedenti nel dibattito pubblico in Italia sui rapporti tra cattolici e politica. E serve, non solo ai cattolici. C’è nella lettera anche una domanda, per certi aspetti sgomenta, su com’è potuto accadere, sull’umiliazione che ne è venuta a Cl come “compagnia cristiana”, legata al carisma di don Giussani. Una domanda che non rimane inevasa: “a volte per noi non è bastato il fascino dell’inizio per renderci liberi dalla tentazione di una riuscita puramente umana; la nostra presunzione di pensare che quel fascino iniziale bastasse da solo, senza doversi impegnare in una vera sequela di lui, ha portato a conseguenze che ci riempiono di costernazione”. Cos’è accaduto? Credo che Carron, scrivendo queste parole, si sia ricordato di un ammonimento di don Giussani: più che del “potere”, di “aver paura – sempre – della gente che dorme e, perciò, permette al potere di fare di loro quel che vuole”. Anche in Cl, qualcuno (troppi?) si è addormentato (troppo?). Per questo, pur nella sequela del carisma di don Giussani, ci si è scoperti “deboli” come tanti altri; e non, come si credeva, e si doveva, “molto più forti del potere”. Ci si è cullati, addormentandosi, nell’illusione, che quando si è in tanti “in compagnia – si sia così “riusciti” nel mondo da vedervi una “conferma” di quel carisma – , non si sia nell’essenziale sempre i “quattro gatti” che erano vicini a Cristo, all’inizio; e quell’inizio è sempre; sempre da riprendere; lì da dove inizia, da Cristo, da quell’Incontro. Si è perso di vista che la fondatività di quell’incontro non è surrogabile da nessuna compagnia (“astratti nel rapporto con stessi, affettivamente scarichi […] ci si rifugia nella compagnia come in una protezione”, ammoniva per tempo don Giussani).
Che prima di tutto viene Cristo. Cristo è un esigente termine di paragone. Più dei nostri amici. Se lo può permettere. E’ quando pensiamo di poter bastare a noi stessi, perché l’abbiamo incontrato, una volta, magari grazie a qualcuno che ne traboccava, e questo ci può bastare come vademecum, e ci sentiamo una volta per tutte “pronti” per il mondo, che cominciano i guai: l’illusione che nelle decisioni che contano si possa scambiare un’economia della riuscita mondana con un’anticipazione sufficiente dell’economia della salvezza.
E la vanità di sentirti “qualcuno”, con gli altri che ti “aiutano” di buzzo buono, magari per averne qualche scampolo dal tuo essere qualcuno, a perderti di nuovo in questo tuo essere “qualcuno”. E’ in questa deriva che mette radici un assoluto controsenso per i cattolici impegnati in politica: l’infausta idea che sulla “vita privata”, non ci sia sindacato morale, per quanto rilievo pubblico si abbia nel proprio impegno. E’ tempo che ci si ricordi che il cristianesimo è nato come sindacato sulla vita privata – anche quella privatissima, del mondo delle intenzioni e non solo degli atti – degli uomini al cospetto di Dio, che certo non è esercizio di reprimenda penale, ma di incoraggiamento alla virtù perché si faccia lievito del “pubblico”.
E ad ogni modo anche del sindacato su Cesare il Cristianesimo si è fatto carico: il Battista ci ha lasciato la testa. I comportamenti pubblici non sono zona franca dal sindacato morale, e non basta invocare il consenso come “giudizio di dio” sostitutivo. Nella crisi morale del presente, è un arzigogolo che non possiamo permetterci, tutti e tanto più i cattolici. Solo così si potrà essere termine di paragone, testimoni di verità, per un’etica pubblica di ogni “confessione”, anche laica, che non voglia cedere alla banalità della debolezza che invoca a ogni piè sospinto la distinzione tra etica e politica, e l’affidamento della politica ad una sua propria morale: quella dell’efficacia, della riuscita; una distinzione i cui quarti di nobiltà possono forse essere riconosciuti a qualche grandezza della storia, non certo a qualche prevaricante prepotenza della cronaca.
E’ qui l’alimento morale per evitare i rischi di separatezza e insieme la tentazione di egemonismo, acutamente osservati, propri all’impegno in politica di non poca vicenda del cattolicesimo italiano; e insieme per spuntare le armi polemiche della malafede. Tra i carismi dell’esperienza cristiana c’è l’umiltà, il capo chino sulla terra, che sa quanto è difficile tenere alta la testa nel mondo. Carron ne dà un limpido esempio, che non serve solo ai cattolici, o ai “suoi”. E’ un fermo memento ad ogni orgoglio del potere presente che ci capiti tra le mani. Servirà.