Lo spettro della crisi è tornato a farsi minaccioso da un estremo all’altro dell’Europa. Ne soffre la prosperità economica, logorata nelle sue spinte di sviluppo. Una sfiducia diffusa deprime le aspettative rivolte al futuro. Il calo di natalità ne è il riflesso clamoroso che intacca la stabilità demografica: la popolazione invecchia e il ricambio fatica a comporsi con gli afflussi migratori dall’esterno. Soprattutto emergono rivendicazioni unilaterali di diritti sregolati, che ribaltano i valori e predicano un cambiamento radicale dell’idea di persona, di famiglia e di società, mettendo in discussione la possibilità di un’etica condivisa. Anche la politica risente in modo profondo della crescente difficoltà a gestire il magma di un mondo diviso, frammentato, attraversato da chiusure e ripiegamenti dove la tecnica e la logica implacabile dei numeri sembrano avere la meglio su una vera capacità di progettare un bene comune nutrito da alti ideali e amico degli interessi più autentici degli uomini del nostro tempo.



Per non ridursi alla navigazione di piccolo cabotaggio, e tantomeno lasciarsi soffocare nel pessimismo della sterile lamentela, può tornare molto utile lo stimolo che viene ora dalla recentissima edizione italiana di un breve pamphlet di Christopher Dawson, pubblicato da Lindau con il titolo Il dilemma moderno. Senza il cristianesimo l’Europa ha ancora un futuro?



La stesura originale risale al 1932 e si collega a una serie di trasmissioni radiofoniche della Bbc. Il contesto che aveva ispirato il bilancio sintetico del famoso divulgatore inglese della conoscenza storica è subito intuibile: l’Europa era da poco uscita dalla tragedia della Grande Guerra; le tensioni tra i popoli e gli Stati, solo attutite dai forzati compromessi della pace, restavano un’insidia velenosa che alimentava sospetti, competizioni e conflitti destinati presto a riesplodere tragicamente; l’economia doveva misurarsi con una congiuntura pesantissima a livello mondiale; se da una parte la modernità premeva per avanzare ancora di più, dall’altra il malcontento sociale e gli estremismi ideologici incrinavano l’ordine pubblico, dando esca alle utopie che potevano assumere i volti più diversi, dal sogno comunista subito degenerato nello stalinismo sovietico fino al populismo nazionalista dei regimi conservatori della Germania hitleriana e dell’Italia fascista. 



La democrazia e il sistema delle libertà civili erano dovunque in pericolo. Mentre il presente si mostrava per tanti versi drammatico, il futuro non si profilava certamente più roseo. L’Europa era in crisi, come e forse anzi più ancora di oggi. La sua concordia interna, il suo bisogno di stabilità nella sicurezza e la sua unità erano in pericolo. La tradizione e la cultura in cui essa affondava le sue robuste radici rischiavano di sbriciolarsi e di essere spazzate via da quel “negativo” che gli intellettuali del tempo descrivevano come “declino della civiltà”, “fine dell’epoca moderna”, “dramma dell’umanesimo ateo”, sotto gli urti del “volto demoniaco” di un potere sempre più invasivo. 

Si intravede una precisa consonanza di problemi tra la riflessione accorata di Dawson sul destino dell’Europa moderna e il “dilemma” attuale nel quale siamo chiamati a imboccare una strada per uscire dalle sabbie mobili dell’impasse che ci condiziona. Sarebbe tuttavia sbagliato pretendere di poter replicare alla lettera, fino all’ultima virgola compresa, la lettura storica di Dawson, insieme alla ricetta da lui concepita per dare uno sbocco alla situazione di stallo in cui vedeva ripiombata l’Europa che amava.

Da Dawson, come da tutti i grandi autori del passato, possiamo ricavare spunti di analisi, suggerimenti, sollecitazioni a volte felici. Ma la ripresa delle indicazioni che ci vengono dai grandi maestri esige la lucidità di una verifica che deve essere anche uno sviluppo creativo: restare pigramente impigliati nelle formule di pensiero messe a disposizione da chi ci ha preceduto sarebbe la paralisi di un’autentica passione culturale. Quasi un secolo, difatti, ci separa dal momento in cui Dawson si è formato e ha divulgato i suoi testi. In tutto questo tempo, sono cambiati sensibilmente il nostro punto di vista sulla parabola storica dell’Occidente e così pure il modo di guardare alla realtà che ci sta oggi di fronte. Si sono accumulate esperienze, dati di conoscenza e nuove domande che costringono a correggere il giudizio retrospettivo su ciò che siamo diventati dopo un lungo tragitto di evoluzione della società e della sua cultura. Anche gli schemi interpretativi tracciati dallo studioso con cui ci stiamo confrontando devono tenerne conto. Il loro riuso in chiave attuale mi sembra nasconda risvolti problematici che voglio provare a riassumere riunendoli intorno a due elementi fondamentali.

La prima questione aperta è l’immagine proposta da Dawson a riguardo della civiltà cristiana che ha generato e per lunghissimi tratti accompagnato la maturazione del nostro Occidente moderno (propaggini americane comprese). Inserendosi nelle tendenze della cultura tradizionalista di matrice sette-ottocentesca, anti-illuminista e filo-religiosa, nemica dei miti del progressismo borghese secolarizzato tanto quanto dei messianismi politici rivoluzionari, lo studioso d’Oltremanica ha voluto contribuire in modo brillante, con la sua opera intellettuale, alla difesa dei valori positivi che l’innesto della vita della Chiesa nel mondo europeo aveva trascinato con sé, opponendosi a una cultura laica dominante che invece ne criticava aspramente le debolezze e i limiti storici.

Ne è venuta fuori una “apologia” che, proprio per reagire all’accerchiamento di un mondo moderno orgoglioso di far scaturire le sue “magnifiche sorti e progressive” dalla liquidazione sostanziale del fondamento cristiano del costume etico e dell’identità culturale dell’Europa, era inevitabilmente portata a esasperare la compattezza, la solidità interna e la radicale diversità di una civiltà preesistente ed estranea al decollo della piena modernità. Sarebbe questo “mondo che noi abbiamo perduto” quello lottando contro il quale la modernità avrebbe edificato la sua costruzione alternativa, rovinosamente devastatrice.

Oggi però abbiamo imparato a riconoscere sempre meglio che il passaggio alla modernità non è stato solo un trauma che ha spazzato via l’intero organismo della civiltà medievale. La sua eredità è rimasta a lungo viva e operante. E senza questo cordone ombelicale rimasto in parte intatto sarebbe impossibile comprendere l’alta cultura, il pensiero politico, l’umanesimo, l’arte, la filosofia, il rinnovamento religioso del Rinascimento e della fecondissima stagione barocca.

La secolarizzazione del potere temporale, il recupero del dualismo tra Chiesa e Stato e la riscoperta della libertà della coscienza sono i frutti estremi, pur con tutta la scivolosità ambigua che contengono in sé, di una fertile dialettica tra sacro e profano che la linea convenzionale di chiusura del Medioevo non ha spezzato. Più ancora, si può cominciare a riflettere pacatamente sulla piena integrità dell’“ordine sociale cristiano” (come lo chiama Dawson in sintonia con tanti altri esponenti della linea culturale da lui fatta propria) edificato in Europa prima della frantumazione religiosa della cristianità occidentale.

 

(1 – continua)