Il cuore di Milano. Identità e storia di una “capitale morale” (Bur, 2012) sarà presentato oggi alla Pinacoteca Ambrosiana, Piazza Pio XI, 2, Milano, ore 11. Intervengono: Valentina Aprea, Sandrina Bandera, Mons. Franco Buzzi, Franco Loi, Danilo Zardin.

Il cuore di una città si identifica nello spazio di civiltà costruito nel corso dei secoli in un territorio in qualche modo ben definibile dall’esterno. Un tempo riconoscibile per una cinta di mura, poi in spazi sempre più ampi capaci di travalicare i confini amministrativi. Sino, come nel caso della Milano contemporanea, a diventare riferimento per le aree contermini su una raggiera sempre più estesa, metropoli ramificata oltre i confini della regione, proiettata in quell’universo mondo che ci rende forti e deboli ad un tempo. Una galassia di relazioni tanto ampie e intensa da poter rimettere in dubbio la forza di attrazione – la stessa sopravvivenza – dei marcatori materiali e immateriali che pure hanno animato la forza propulsiva originaria del capoluogo lombardo. Per non essere eterodiretti, quei marcatori richiedono una continua e condivisa manutenzione interna, tra le forze vive della città, per incarnare nel nuovo di ogni giorno il codice di un antico processo di autonobilitazione, facendosi salvi da esasperanti e inutili richiami alle proprie mitologie.



Anche perché, sovente, gli stereotipi della milanesità si dipanano con riferimenti a una capitale che non è mai stata tale, se non in intense e brevi fasi storiche. Eppure si evoca a parole una Milano capitale economica negli anni dell’industrializzazione rampante, o una Milano che si erge a capitale morale a fronte delle molte indegnità e dei non pochi scempi del Novecento italiano. Formule molte volte ripetute per approssimazione e declinate di volta in volta, a convenienza, utili per ribadire o per negare alla ricerca di argomentazioni in attesa di un caffè. Senza guardarsi dentro, senza rimettersi in dubbio.



Dire Milano capitale morale è diventata una banalità ricorrente, un concetto fragile che, in quanto tale, sembra indurre fragilità nello stesso codice genetico della società milanese. Una promessa che non sembra più in grado di realizzarsi perché convinzioni e speranze possono frantumarsi nella tramoggia dei cedimenti della vita materiale e negli offuscamenti individuali della moralità che disperdono socialità e rendono plausibile la perdita di quei riferimenti comuni che hanno dato forma all’antica milanesità. 

E allora, adesso, diventa più che mai necessario recuperare le intelligenze civili rileggendo percorsi plurisecolari come sa fare la ricerca storica quando gli storici mettono in squadra le proprie competenze. Né altro si può fare per cogliere il senso delle cose dato che la modernizzazione è processo multiforme e articolato, tanto costruttivo sul piano materiale quanto potenzialmente distruttivo dei legami di appartenenza orientati al bene comune che innalzano il senso del vivere di ciascuno e attribuiscono senso alle costruzioni sociali. Ogni potente processo di trasformazione – chiamiamolo laicamente «modernizzazione» o, con maggior forza morale (insegnava Giuseppe Toniolo), «incivilimento» – è in sé equivoco sul confine di mille affascinanti ma pericolose ambiguità. Su questo terreno si misura l’utilità della storia.



Sin dalle sue origini non mancava di antico fascino la città sorta di mezzo alla pianura alla sinistra del Po, oppidum gallico e municipium romano, che quasi duemila anni fa meritò encomi letterari come luogo di meraviglie e sempre di meraviglia riempì gli occhi di che giungeva d’Oltralpe nel XIX secolo. Cose meravigliose accaddero nelle lunghe età delle dominazioni straniere, allora che Milano ormai ricca di arti e di mestieri, di traffici e di rendite fondiarie, di antiche aristocrazie militari e feudali ormai compenetrate con le nuove oligarchie emergenti, fece valere, realisticamente e con senso pratico, i propri ambiti di sovranità. Prova vincente della capacità di farsi accettare e di accettare radicata nelle autonomie dei corpi intermedi, nei meccanismi di formazione del consenso garantiti dal basso, nel complesso gioco di contrappesi tra l’obbedienza dovuta al dominante straniero e le aspettative di coloro che erano dominati. 

Alla ricerca di questo arduo equilibrio, più di ogni altra terra della penisola, Milano mise a punto la pratica di negoziazioni su tutti i tavoli al fine di reggere le interdipendenze tra le inevitabili sudditanze e le esigenze di una buona salute civile atta a salvaguardare le ricchezze materiali e a non passare la soglia oltre la quale le ingiustizie ridistributive bloccano le dinamiche sociali e, nel consolidare gli status della miseria, alimentano conflitti distruttivi per la convivenza. I processi regolativi, nelle età antiche come oggi, non sono mai lineari, non sono terre di idillio formale. Richiamano pratiche di negoziazione e conciliazioni faticose, riposizionamenti discussi e ridiscussi con pazienza e temperanza. Virtù civili di una potenziale capitale morale ante litteram, vigile nel rimuovere le inerzie che potevano contrastare l’evolvere dei tempi, nell’evitare le parabole del possibile declino facendosi forte dell’incontro tra i poteri delle autorità costituite, la vivacità della società laica e la sfera religiosa da cui la rispettata voce della Chiesa traeva ragioni per azioni sussidiarie di solidarietà. 

Alla vigilia dell’età contemporanea e lungo gli ultimi due secoli, non sono mancate fasi di rottura e ragioni di conflitto, prove che le antiche moralità civili faticavano a rielaborare le nuove sfide culturali, a mediare tra le conflittualità emergenti. L’avanzare della modernità rimise in dubbio gli spazi dell’autonomia sociale e le sue dialettiche locali ma non ne fece tabula rasa. Neppure la dittatura fascista fu in grado di diserbare i radicamenti della società locale. Per il genius loci ben più penetrante, perché strutturale e interno a Milano e alla milanesità, fu il confronto con le virtù e i tormenti di un’industrializzazione arrembante quando la democrazia era poco più che un progetto ben disegnato. Fu di nuovo necessario dar buona prova di singolari attitudini mediatrici già sperimentate, di pacato gradualismo nel ricomporre gli interessi senza illustrare fuori misura le divaricazioni. Venne di nuovo il tempo di ridisegnare con nuovi protagonismi i contenuti di un patto civile in grado di reggere e regolare le trasformazioni sociali. Le attitudini ambrosiane a rinnovare le norme condivise della convivenza seppero supportare la crescita del mosaico urbano e umano sotto la pressione delle immigrazioni gravitanti sul capoluogo limitando, per quanto realisticamente possibile, i disagi sul piano delle dotazioni fisse sociali. 

La creazione del nuovo amalgama contò su una cultura del lavoro che accanto alle soddisfazioni economiche ispirava la voglia di dare senso e dignità alla prestazione lavorativa. Contaminazioni esemplari di un processo di assimilazione e di integrazione che chiedeva alle forze costitutive della società di non fermarsi all’enunciazione astratta di convinzioni e diritti. Realismo e senso pratico, attitudini a star dentro alle cose nuove, responsabilità civili e operosità umana e religiosa, hanno incardinato nella città le ragioni di sentirsi capitale morale anche quando la storia cede campo alla speranza che le azioni di nuovo responsabili sappiano ridisegnare narrazioni estranee e far fonte ad accadimenti che, meno che mai, ammettono inerzie e retoriche. Antiche nobiltà possono essere foriere di rinnovate nobilitazioni e di ridisegnate virtù collettive. Moralità civili indispensabili, anche se le capitali sono altrove.