Danilo Zardin è stato per me – anche se lui non lo sa – un maestro, uno di quegli storici a cui, ancora studente e poi giovane insegnante, guardavo per capire come affrontare lo studio della storia secondo una prospettiva che non riducesse l’avventura umana all’immagine che la cultura dominante aveva stabilito. È perciò con infinito timore che mi permetto di muovere qualche appunto agli articoli che ha scritto a proposito di Christopher Dawson. Ma anche dallo storico inglese ho imparato molto, a partire da quando – anche qui in anni ormai assai lontani – scoprii il suo nome in una nota a piè di pagina di un articolo di don Francesco Ricci su Il nuovo Areopago, e mi misi in caccia dei suoi libri allora pressoché introvabili. E perciò mi tocca dire che la lettura che Zardin offre di Dawson rischia di essere riduttiva. La sua analisi riguarda Il dilemma del moderno, un pamphlet recentemente pubblicato da Lindau; che presta il fianco, in effetti, alle critiche che gli vengono mosse. Ma si tratta della trascrizione di una serie di conferenze per la Bbc, che risente inevitabilmente della semplificazione che la sua origine impone; invece, l’impressione che il lettore riceve leggendo le note di Zardin è che le sue riserve valgano per l’intera lettura della storia che Dawson propone; e qui i conti non tornano.



Zardin osserva, per esempio, che «dell’umanesimo classicista greco-latino non si fa nemmeno parola (ma la filosofia e il diritto dell’Occidente medievale e moderno allora come li spieghiamo?), così come si tace del debito con l’ebraismo». È vero, nel Dilemma a queste eredità non si fa cenno. Ma si apra, sempre per esempio, La formazione della cristianità occidentale (D’Ettoris 2011), un testo che Dawson stesso ebbe a definire “ultimate”, definitivo. Alle pagine 107-110 si legge: «L’Antico e il Nuovo Testamento costituiscono uno sviluppo singolo e integrato che non ha parallelo fra le religioni del mondo. […] All’Antico Testamento dobbiamo un’intera serie di tradizioni religiose che sono caratteristiche del cristianesimo […]. L’interpretazione cristiana della storia, che fu di fatto creazione dei profeti ebraici e fu trasmessa senza essenziale cambiamento da san Paolo, san Giovanni e sant’Agostino, non è la meno importante di queste tradizioni». Più avanti Dawson osserva come «i cristiani entrarono in relazioni strette con il mondo ellenistico e inaugurarono quel lungo dialogo con il pensiero greco […]. Essi infatti riconobbero l’esistenza di una conoscenza fondamentale della verità comune sia ai cristiani che ai filosofi […]. Clemente va oltre, affermando che la filosofia è una sorta di terzo ordinamento divino che è necessaria anche ai cristiani, se debbono comprendere tutto quanto comporta la loro fede».



Quanto all’eredità romana e all’apporto germanico, ecco alcune righe de Il cristianesimo e la formazione della civiltà occidentale (Rizzoli 1997): «La Chiesa cristiana ereditò le tradizioni dell’impero; essa si presentò ai barbari dotata del prestigio della legge romana e dell’autorità del nome romano. […] A misura che i barbari si convertivano al Cristianesimo, acquistavano anche gli elementi di una cultura più elevata, mentre, d’altra parte, la società cristiana andava gradualmente perdendo contatto colle tradizioni della cultura romana e si lasciava realmente influenzare dallo spirito barbarico».



Passando all’invito di Zardin a «riflettere pacatamente sulla piena integrità dell’“ordine sociale cristiano” (come lo chiama Dawson in sintonia con tanti altri esponenti della linea culturale da lui fatta propria) edificato in Europa prima della frantumazione religiosa della cristianità occidentale», ecco il parere dell’interessato (sempre La formazione…): «La straordinaria unità culturale raggiunta nel secolo XIII non era così completa come si potrebbe supporre dai suoi grandi successi nell’arte, nella filosofia e nell’organizzazione ecclesiastica. Risultato di un grande consapevole sforzo spirituale, comportò un così alto grado di tensione da essere seguita da un’inevitabile reazione in cui si riaffermarono elementi repressi o trascurati. […] Né l’opinione che l’unità della Cristianità del secolo XIII era superficiale e parziale è senza qualche giustificazione, dal momento che la nostra conoscenza della cultura medievale è inevitabilmente influenzata dal fatto che il clero era il solo elemento a essere pienamente in grado di leggere, di scrivere e di esprimersi con distinzione, cosicché tutti gli storici, i filosofi e i legisti rappresentavano lo stesso punto di vista». Non c’è bisogno, insomma, di «scavare nel testo di Dawson in tutte le sue pieghe» per «scopr[ir]e che qualche dubbio sulla limpida esemplarità dell’incarnazione storica del cristianesimo conosciuta dalla civitas medievale anche lui arriva a nutrirlo»: da storico avvertito, sa bene, e riconosce apertamente, quali sono i limiti di ogni civiltà e di ogni generalizzazione.

Rimarrebbe la questione, pure sollevata da Zardin, del giudizio sul passaggio all’epoca moderna, ma lo spazio è tiranno, e il lettore interessato potrà proseguire la ricerca da sé, ne La religione e lo Stato moderno (D’Ettoris), o in Religione e progresso, in uscita a breve da Lindau; già questi brevi spunti mi pare documentino comunque come l’immagine della storia d’Europa che una lettura sistematica delle opere di Dawson offre sia ben più ricca e articolata di quella che emerge dalle sole pagine del Dilemma – il quale a sua volta potrà essere riletto in modo più contestualizzato, senza pretendere che sia quel che non voleva essere.

La debolezza della posizione di Dawson semmai – e qui concordo con le conclusioni di Zardin – sta altrove. Sta lì dove, nell’indicare (per esempio in La crisi dell’educazione occidentale, di prossima pubblicazione ancora per i tipi di D’Ettoris) una via d’uscita dalla crisi che la cristianità e la civiltà occidentale stanno attraversando, propone in sostanza una riforma del curriculum studiorum, un ritorno alla formazione umanistica – con tanto di classici greci e latini, peraltro… – di cui i secoli passati si erano nutriti. Senza vedere che il dramma sta a un livello più profondo, nello smarrimento della natura stessa dell’esperienza cristiana; e che quindi non basta il recupero dei suoi esiti, ma occorre la ripresa dell’origine di quell’esperienza. Qui mi pare si possa individuare il limite della proposta di Dawson; ma a chi abbia a cuore la ripresa dell’esperienza cristiana nella sua totalità i suoi studi offrono uno strumento di lavoro assolutamente prezioso.

(Roberto Persico)