Giungono quest’anno alla terza edizione I “Dialoghi d’Aragona”, la scuola di Alta formazione che si svolgerà a Catania dal 13 al 23 giugno al Camplus Collegio d’Aragona sul tema: “Salute e malattia, tra biologia e storia”. I Dialoghi, che si avvarranno della collaborazione dell’Università di Lione, vedranno la partecipazione di eminenti personalità della cultura europea: dal sociologo David Le Breton al filosofo tunisino docente alla Sorbona Yves Charles Zarka, dallo psicoanalista Sarantis Thanopulos al biologo Peter Becker. La Scuola di Alta Formazione, diretta da Pietro Barcellona, è aperta a 40 corsisti (laureati con laurea specialistica, dottori di ricerca, ricercatori). La scadenza per le iscrizioni è fissata al 2 giugno 2012. Il bando è disponibile sul sito: www.dialoghiaragona.it. Sul tema di quest’anno pubblichiamo un contributo di Pietro Barcellona.
Proporre il tema per una Scuola di Eccellenza che si svolge su quasi due settimane di lezioni e discussioni giornaliere, impone quanto meno lo sforzo di esplicitare al massimo le ragioni della scelta e il metodo che si intende mettere alla prova. Per certi versi può apparire assai semplice trovare tra i tanti argomenti che affollano il dibattito culturale quello che più può suscitare curiosità e interesse e che risponde anche alle mode del momento. Nel corso dell’anno si susseguono infatti molti convegni tematici che riguardano argomenti rilevanti e di sicuro interesse. Tuttavia non è questo l’approccio che noi intendiamo proporre. Non pensiamo di somministrare ai partecipanti al corso estivo soltanto un repertorio di illustri relatori che sviluppano ciascuno per proprio conto le tesi e gli argomenti che gli sono congeniali e rappresentano lo stato della discussione pubblica. La nostra ambizione è più grande: vogliamo contribuire, attraverso il confronto di personalità appartenenti a campi diversi del sapere, a costruire insieme agli studenti un nuovo vocabolario in grado di favorire la comprensione di fenomeni che caratterizzano in profondità le tendenze culturali, scientifiche e politiche della società contemporanea. Insomma, una ricerca che si sviluppi contestualmente all’attività propriamente didattica provando ad interagire con l’intero campo dei saperi coinvolti nella elaborazione e comprensione del tema generale.
La premessa di questa impostazione è che siamo in presenza di una grande frantumazione dei saperi specialistici che producono ciascuno nel proprio settore innovazioni cognitive ma anche terminologiche che concorrono a costituire un vero e proprio lessico della società contemporanea. Oggetto della riflessione della ricerca sono, da questo punto di vista, in primo luogo i “concetti” attraverso cui si sono definiti fin qui gli statuti delle varie discipline che concorrono a delineare la visione del fenomeno in esame.
Come è possibile agevolmente constatare, la definizione del concetto di malattia/patologia non ha una portata soltanto descrittiva e classificatoria ma una rilevanza normativa, giacché tende a definire le tecniche argomentative con le quali si tende a isolare un aspetto dell’esperienza umana e a regolarne il trattamento dal punto di vista medico ma anche sociale e culturale. L’attuale discussione sulla classificazione del manuale diagnostico utilizzato nella diagnosi delle malattie mentali è una prova di per sé evidente di come i concetti non siano mere descrizioni ma qualificazioni e inquadramenti di un sintomo che definiscono allo stesso tempo la sua iscrizione in un campo o nell’altro del sapere e le modalità del trattamento correlativo. Se ad esempio la depressione, che ormai costituisce quasi una malattia sociale, viene classificata interamente fra i disturbi delle diverse aree cerebrali, è consequenziale che una diagnosi in termini puramente neurali porta ad un approccio che nega implicitamente il significato di una diversa modalità di terapia fondata sull’interazione personale e sulla parola.
Il tema del valore epistemologico delle classificazioni non è di per sé oggetto della ricerca che proponiamo di svolgere nel corso dei seminari, ma non c’è dubbio che esso è implicato fortemente nella visione del funzionamento dell’essere umano proprio dell’epoca in cui viviamo. In questa prospettiva pensiamo di poter suggerire non solo che i concetti non rappresentano descrizioni neutrali dello stato dei fatti, ma che sono complesse costruzioni normative, orientate all’organizzazione dell’esperienza. Per rendere esplicito il senso di queste brevi considerazioni, voglio qui richiamare due autori che hanno esplorato i rapporti tra concetti ed esperienza con riferimento al fenomeno artistico e all’attività filosofica del pensiero. Semir Zeki ha dedicato la sua ricerca alle modalità attraverso le quali si forma la rappresentazione artistica del mondo. Zeki ha assunto come dato di partenza l’instabilità delle sensazioni che ciascun essere umano riceve nel rapporto con l’ambiente esterno: il contatto col mondo esterno è per Zeki l’esperienza drammatica dell’effimero, giacché anche i flussi che giungono al nostro apparato visivo sono frammentari e in costante mutamento. Nessuno potrebbe dichiarare di vedere qualcosa o di provare un’emozione senza assumere se stesso come un’identità costante nel tempo e senza selezionare tra la molteplice e puntiforme manifestazione del mondo esterno, delle immagini astratte che stabilizzano il fluire caotico degli stimoli.
Secondo Zeki, il concetto è un’astrazione che appartiene alle funzioni mentali e serve essenzialmente a stabilizzare il flusso caotico degli stimoli esterni. Zeki insiste su una funzione importante del concetto, quella di stabilizzare l’esperienza e di consentirne la rappresentazione mentale unitaria. Il concetto è cioè una reazione mentale alla instabilità del divenire storicotemporale e al carattere apparentemente caotico dell’impatto dell’Io con il mondo. La percezione del mondo è sempre mediata dall’apparato di concettualizzazioni presenti nella mente di chi guarda e non è quindi mai immediata, ma filtrata attraverso una griglia selettiva già all’opera nello stare al mondo di ogni soggetto umano, griglia acquisita attraverso la socializzazione e l’acculturazione. I concetti sono dunque non la pura fotografia del mondo ma una vera tecnica di organizzazione del mondo che ne permette l’interpretazione secondo un significato che esprime la rappresentazione fondamentale tra soggettività e oggettività.
Analogamente Pieraldo Gargani ne Il sapere senza fondamenti ha configurato in modo a mio parere assai convincente il rapporto tra concetti e pratiche. In principio vi sono sempre pratiche che si sperimentano nell’agire quotidiano cercando di fronteggiare il vario e continuo accadere degli eventi, ma poiché le pratiche sono in continua evoluzione, secondo Gargani, si avverte l’esigenza di una stabilizzazione delle pratiche stesse attraverso una concettualizzazione o razionalizzazione che apparentemente ne spiega la dinamica ma che in realtà tende a stabilizzare una pratica sottraendola alla continua destabilizzazione che la molteplicità delle esperienze provoca nella mente del soggetto. Secondo Gargani i concetti, specie quando proclamano la propria universalità (assolutamente indimostrabile), provano a fondarsi su una validità logica che permette di fissare i comportamenti socialmente accettati in modo che non vengano continuamente in discussione.
Già questi due sommari riferimenti ad un filosofo dell’arte come Zeki e ad uno studioso dell’epistemologia contemporanea consentono di dubitare del carattere metastorico e inoppugnabile delle concettualizzazioni che sono poste alla base dei diversi statuti disciplinari. Definire il campo di osservazione è già un’operazione selettiva, orientata dal principio normativo che implicitamente presiede alla costruzione di un concetto che, descrivendo, in realtà, norma le modalità attraverso cui un fenomeno diviene rilevante per uno specifico sapere.
La lotta per la classificazione delle malattie, delle patologie e delle devianze non è dunque una lotta neutrale fra concetti che riflettono la realtà di per sé significativa, ma il risultato di una complessa attività di pensiero che attraversa contemporaneamente il campo della percezione e quello della rappresentazione concettuale. Non si intende così aderire ad una visione puramente costruttivistica del processo conoscitivo degli esseri umani, ma si vuole soltanto sottolineare come siffatto processo non è affatto neutro e descrittivo, ma sempre implicitamente normativo.
La creazione di un nuovo concetto di malattia non è perciò un risultato puro e semplice della acquisizione nuova di dati diagnostici (come quelli che oggi derivano dalla diagnosi per immagini delle attività cerebrali), ma anche una presa di posizione assiologica rispetto ai problemi della convivenza umana tra esseri che presentano connotazioni comportamentali assai differenti.
Affermare che l’aggressività e la violenza sono imputabili esclusivamente a particolari configurazioni degli assetti neuronali significa, ad esempio, proporre una diagnosi di un comportamento violento opposta a quella di chi, muovendo dalla personalità dell’aggressore, prova a ricostruirne i processi interiori in termini di emozioni e di libera volontà.
Ciò che in realtà l’estrapolazione dei concetti dal contesto storico-sociale in cui si formano tende a produrre è un’organizzazione sociale implicitamente ispirata al principio normativo da cui derivano gli statuti disciplinari dei diversi saperi. Se l’uomo è soltanto una macchina, il concetto di medicina e di cura non può non risolversi in un intervento meccanico sugli eventuali “errori di funzionamento”. In una trasmissione televisiva, lo psichiatra Giovan Battista Cassano si definiva per l’appunto un meccanico del funzionamento mentale. Se invece si ritiene che gli esseri umani abbiano un’eccedenza psichica non riconducibile a puri meccanismi fisiologici, appare evidente che il trattamento, inteso a rendere possibile l’elaborazione delle emozioni e delle paure, acquista un significato diverso e affida alla parola e non solo ai farmaci il trattamento del sintomo del disagio e della sofferenza.
Alla base dunque della diversa “interpretazione” dei processi di concettualizzazione si può riscontrare una profonda differenza fra le diverse concezioni che ciascun orientamento ha dell’essere umano. Una ricerca impostata con il metodo proposto deve sforzarsi dunque di mettere in discussione il lessico scientifico dominante per riimmergere i vari orientamenti nel contesto storico-sociale. Si tratta cioè di rimettere in discussione anche l’autonomia degli statuti dei saperi disciplinari che assumono le rispettive premesse concettuali come verità inconfutabili.
Nel domenicale del Sole 24ore del giorno 4 marzo Massarenti, riprendendo le ipotesi di Crick nel saggio La scienza e l’anima, afferma: “proprio tu, con le tue gioie e i tuoi dolori, i tuoi ricordi e le tue ambizioni, il tuo senso di identità personale e il tuo libero arbitrio, in realtà non sei altro che la risultante del comportamento di una miriade di cellule nervose e delle molecole in esse contenute”. Proprio per questo Crick propone una spiegazione materialistica della coscienza la quale non sarebbe altro che il risultato di una complessa mappa di interazioni tra le cellule cerebrali di determinate aree che si sintonizzano su oscillazioni di 40 herz. È ovvio che in una simile prospettiva, che peraltro occorrerebbe dimostrare empiricamente, si propone una visione dell’essere umano come interamente riducibile ad animale vivente da affidare per ogni terapia, come dice ironicamente Vittorino Andreoli, al veterinario e all’ingegnere genetico.
Proprio di fronte a posizioni di questa natura, che non possono essere criticate soltanto in base alla presunta irriducibilità del soggetto umano, si apre tuttavia uno spazio serio per un confronto che provi a ricollegare la visione della malattia e della salute nel contesto storico in cui viviamo.
Definire un essere umano malato o sano è una posta in gioco assolutamente decisiva per il futuro sviluppo della scienza dell’uomo. Come ormai tutti gli studi del secolo scorso ci hanno insegnato, la malattia è una stimmate che spesso condanna alla esclusione e all’emarginazione sociale. Una visione puramente genetica della malattia ha condannato migliaia di persone al silenzio e alla reclusione. I famosi processi di autocritica che si sono sviluppati all’interno dello stalinismo ma anche di altri processi persecutori hanno sempre condannato l’imputato sulla base della sua anormalità.
In un’epoca in cui la manipolazione massmediatica tende a produrre pseudo divulgazioni scientifiche e passività rassegnata della maggioranza dei popoli, chiedersi quali problematiche non solo medico specialistiche, aprano la riflessione sulla salute e sulla malattia, ci sembra del tutto evidente. Perciò abbiamo scelto di fare intervenire nella relazione e nella discussione pensatori che si sono occupati approfonditamente di questi temi e che possono dare sicuramente un contributo ad una migliore comprensione dell’epoca che stiamo vivendo. La distinzione tra sano e malato è anche oggi alla base di discriminazioni politiche e sociali ed è anche fonte quotidiana di incertezze e problemi nella vita delle persone e nelle forme della loro convivenza.