«Uno dei tanti, anch’io. / Un albero fulminato / dalla fuga di Dio»: così si definiva un Giorgio Caproni già anziano, poco prima di morire, in una delle ultime poesie di Resa amissa. E forse basterebbe questa definizione di sé per stroncare, in occasione di questo primo centenario della sua nascita, qualsiasi tentativo di serena archiviazione in uno dei tanti box della storia letteraria. La peculiarità di Caproni sta tutta infatti nel suo affannoso, costante corpo a corpo con il mistero di sé, di Dio, delle cose: una lotta da cui, ogni volta, esce ogni volta ferito. A differenza dei tanti ideologi che, nei suoi anni e anche nei nostri, simili a medici troppo sicuri della propria scienza, diagnosticano la morte di Dio, Caproni ha vissuto questa estrema postulazione con una drammaticità e un affanno quasi fisici: e di cui la sua poesia è il segno indelebile.
Una vocazione, quella per la poesia, mai rinnegata né venuta meno: essa è non solo lo specchio, ma soprattutto lo strumento dell’indagine caproniana. Basterà ricordare quanto dichiarato da lui stesso in una famosa intervista: «Io penso che la poesia sia stata la ricerca, fin da ragazzo, di me stesso, della mia identità: cercare di capire chi sono e, attraverso me, cercare di capire chi sono gli altri. Io penso che il poeta sia un po’ come il minatore che, dalla superficie – cioè dall’autobiografia – scava, scava, scava, scava finché non trova un fondo nel proprio io che è comune a tutti gli uomini». Il gesto poetico di Caproni è già tutto configurato, infatti, in questo suggerimento: partire dal particolare, dalla fitta trama storica del proprio vissuto, per arrivare a quel barlume di universalità senza la quale non esiste poesia.
Del resto, questo continuo tentativo comunicativo è solo un elemento della sua immensa, impaziente ansia di verità: Caproni modula la propria voce sempre declinando una domanda, un’urgenza, un appello. E lo fa in rapporto diretto con il proprio lettore, come se questi fosse non solo lo spettatore di un suo diario e di un suo tentativo, ma anche il destinatario personale di una lettera, l’interlocutore di un biglietto fra amici.
Chi provasse, oggi, a leggere di seguito la magnifica, integrale Opera in versi di Giorgio Caproni ne avrebbe forse un’impressione spiazzante, un senso di vertigine. A distanza di anni, quelli che erano sembrati pazienti, costanti tentativi teoretici, fantasie di avvicinamento, rovelli esistenziali, risultano adesso – nella giusta distanza critica – un ininterrotto dialogo con il mistero, o meglio, un ininterrotto combattimento. Il mistero di Dio attraeva e respingeva Caproni con un’insistenza che ha pochi uguali nella letteratura europea. Già nella sua prima stagione poetica (e Caproni ne ha attraversate moltissime) si coglie il vibrare sommesso di una domanda sempre tesa, di un impareggiabile struggimento: «…il sangue ferveva / di meraviglia, a vedere / ogni uccello mutarsi in stella / nel cielo» (Ricordo).
Uno stupore dentro il quale subentra ben presto lo sgomento: nel 1936, poco prima delle nozze, muore la fidanzata Olga Franzoni. «Forse su Lei poggiava tutta la mia certezza», scriverà Caproni a proposito di questo lutto, e di cui la sua poesia porta tutto il dolore, il desiderio sconfinato e disperante che le cose permangano: «Quale debole siepe fu l’amore!». Ogni cosa, persino l’amore, sembra cedere rispetto al transitare dell’essere, alla sua furia.
Ma è sorprendente come il dolore non intacchi quella meraviglia di cui prima si parlava, anzi, la renda in qualche modo più meditata, più intensa proprio perché più dolente: «Ah tu perdona / se ho cuore – se non so troncare i fili / d’orgasmo, e anche una brezza m’appassiona». E l’enigma, l’enigma puro e nudo delle cose, che tante volte negli anni tornerà: «Brezze e vele sul mare: / dei pensieri da nulla. // Ma che spinta imparare / cos’è una fanciulla» – è una poesia pubblicata nel 1956. Lo stesso motivo – questo dolente chiedersi che cosa sono le cose – tornerà, con altra e significativa modulazione, esattamente trent’anni dopo, nel Conte di Kevenhüller: «Viltà d’ogni teorema. // Sapere cos’è il bicchiere. // Disperatamente sapere / che cosa non è il bicchiere, / le disperate sere / quando (la mano trema, / trema) nel patema / è impossibile bere» (Squarcio).
Nel corso di trent’anni una stessa domanda torna e si ripropone moltiplicata in drammaticità: nel 1956 una fanciulla era il modo per reimparare cos’è una fanciulla; trent’anni dopo, l’enigma sulla natura di un bicchiere rende disperate le sere, fa tremare la mano, rende impossibile bere. Non è, quello di Caproni, un cruccio intellettualistico, ma una radicale passione per il mistero delle cose: neanche una cosa apparentemente minima, e puramente funzionale come un bicchiere può evitare di passare al vaglio del «patema»: è quel patema è appunto la natura delle cose, il loro significato. Senza di esso, l’uso di quella stessa realtà appare quasi impossibile. Nella poesia Concessione: «Buttate pure via / ogni opera in versi o in prosa. / Nessuno è mai riuscito a dire / cos’è, nella sua essenza, una rosa». E il motivo torna anche, esplicito, bellissimo, ancora una volta, in una poesia dedicata alla moglie Rina: «Senza di te un albero / non sarebbe più un albero. / Nulla senza di te / sarebbe quello che è» (A Rina).
Sarebbe interessante notare tutte le volte che uno stesso motivo torna, a più riprese negli anni, nella poesia di Caproni, modulato ogni volta in un’escalation di drammaticità, come se nel tempo il chiodo di una domanda venisse spinto sempre più a fondo nella fibra della vita della ragione. Per esempio, nel Congedo del viaggiatore cerimonioso: «Congedo alla sapienza / e congedo all’amore. / Congedo anche alla religione. / Ormai sono a destinazione. // Ora che più forte sento / stridere il freno, vi lascio / davvero, amici. Addio. / Di questo, son certo: io / son giunto alla disperazione / calma, senza sgomento».
Ma una contrapposizione a queste parole la si trova all’interno del medesimo libro: nella poesia Il fischio, infatti, si legge: «Lasciatemi perciò uscire. / Questo, io vi volevo dire. / Per quanto siano bui / gli alberi, non corre un rischio / più grande di chi resta, colui / che va a rispondere a un fischio». E ancora, in Prudenza della guida: «Possiamo di qui già vedere / tutto un versante: abbiamo / dunque già una certezza. / Sostiamo. Che ne sappiamo, / noi tutti, di quel che ci aspetta / di là, passata la cresta?». I libri di Caproni sono tutti così: non dei trattati, ma dei campi di forze, dove si dice qualcosa e poco dopo la si nega; una questione sembra chiudersi per poi essere riaperta nella poesia successiva – una parola, un particolare torna ad avvincere lo stesso punto che sembrava – nichilisticamente – risolto, appunto, in una sorta di professione di “stoicismo”.
Si pensi, tanto per fare un esempio, a una delle prime poesie su, per e contro Dio, che costelleranno, quasi ossessivamente, tutto il percorso poetico di Caproni: I coltelli – una poesia semplice e accorata, ma che taglia, appunto, come una lama: «Ah, mio dio. Mio Dio. / Perché non esisti?». Questa sarà infatti forse la più grande peculiarità di Caproni, la fecondità del paradosso: interrogare continuamente un Dio in cui non crede, e – addirittura – pregarlo, implorarlo, rimproverarlo di non esistere: «“Piaccia o non piaccia!” / disse, “Ma se Dio fa tanto,” / disse, “di non esistere, io, / quant’è vero Iddio, a Dio / io Gli spacco la Faccia» (Lo stravolto). O la domanda, che riprende nella chiusa quella del cieco del Vangelo: «Cosa volete ch’io chieda. / Lasciatemi nel buio. / Solo questo. Ch’io veda» (Istanza del medesimo). E soprattutto in una poesia, Anch’io, il cui titolo sarà ripreso prima di morire per l’epigramma con cui abbiamo aperto quest’articolo, e che in questa prima declinazione diceva: «Ho provato anch’io. / È stata tutta una guerra / d’unghie. Ma ora so. Nessuno / potrà mai perforare / il muro della terra».
Da questo momento in poi, la lotta e l’interrogazione con Dio si fanno quasi agoniche, continue, in una rissa fittissima e continua, e non priva d’ironia, se si pensa alla Preghiera d’esortazione o d’incoraggiamento: «Dio di volontà, / Dio onnipotente, cerca / (sfòrzati!), a furia d’insistere / – almeno – d’esistere». Ma s’insinua, dentro la crescente disperazione, quasi per paradosso, una confusa percezione di positività, che si realizza come un barbaglio appena accennato: «Ah, “quale folle danza” / (mi misi a canticchiare, / così, per non disperare / nel buio) “è la Speranza”» (Espérance). E il tentativo, cosciente e altrettanto disperato, di vivere accantonando il problema: «Faremo, / ci siamo detti, senza / di lui. // Saremo, / magari, anche più forti / e liberi. // Come i morti» (Determinazione).
E ancora, quel leopardiano «discorde accento» che rende ineludibile, carnalmente ineludibile, questa domanda: «Per quanto tu ragioni, c’è sempre un topo – un fiore – a scombinare la logica. Direi che il tuo ragionamento è perfetto, se non avessi davanti questo prato di trifoglio. E sarei anche d’accordo con te, se nella mente non mi bruciasse (se non mi bruciasse la mente – con dolcezza) quest’odore di tannino che viene dalla segheria sotto la pioggia: quest’odore di tronchi sbucciati (d’alba e d’alburno), e non ci fosse il fresco delle foglie bagnate come tanti lunghi occhi, e il persistente (ma sempre più sbiadito) blu della notte» (Altro inserto).
Scriverà, nel libro – l’ultimo – Res amissa: «Tutti riceviamo un dono. / Poi, non ricordiamo più / né da chi né che sia. / Soltanto, ne conserviamo / – pungente e senza condono – / la spina della nostalgia». Quel dolore era diventato la nostalgia di un dono irrevocabile e confuso, di cui non si ricorda la natura né il mittente, ma da cui si è instancabilmente attratti e vocati. E scriverà, in una di queste ultime poesie: «S’avvicina il Natale. / Gesù, portami via. / La tua è la più bella bugia / che possa allettare un mortale».
Tra quella «bugia» e quell’allettamento si gioca, tesa e implacabile, la partita di un autore come Caproni – ininterrottamente ferito dalla possibilità che in fondo a quella nostalgia (quella «bugia») di un dono immemorabile splenda, finalmente, qualcosa di vero, qualcosa di definitivo – qualcosa che sia, sia pur in un modo inimmaginabile, tutto.