La contestuale trasmissione in diretta televisiva dei primi risultati elettorali, dei funerali della povera Melissa a Brindisi e degli effetti devastanti del terremoto in Emilia Romagna, operati con abile dosaggio dai conduttori televisivi che stimolavano gli interventi di commento di illustri giornalisti e di importanti personaggi politici, hanno reso evidente ciò che provo di fronte al sistema mediatico dell’informazione e su cui ho cercato di ragionare in queste pagine. Nonostante la puntigliosità dei dettagli che venivano messi in scena tra risultati, catastrofi e dolori, e le puntigliose reazioni degli invitati alla trasmissione, ciò che è mancato all’appello di giornate così intense e drammatiche è stata la realtà della società italiana. Solo in un commento stringatissimo, Francesco Merlo ha espresso sulle pagine di Repubblica i sentimenti che ha provocato il feroce assassinio della ragazza Melissa. Per il resto solo ufficialità, retorica, e lunghe litanie sulla forza che il Paese troverà per reagire a questa cupa fase di disgrazie. Nulla che lasci capire il rapporto di condivisione dei partecipanti alle scene, l’insostenibilità materiale di ciò che accade nel nostro Paese. Dov’è l’Italia di cui parlano e parliamo?
Sull’editoriale dell’Avvenire di venerdì 18 maggio, dal titolo Una gran notizia, Marco Tarquinio sottolinea come c’è un’altra Italia che il sistema mediatico non registra e non mostra: un’Italia di persone viventi che si riuniscono a Castelvolturno o a Genova per ribellarsi alla violenza e al terrore che vogliono soggiogare società e politica. Al contrario va sempre in scena un’Italia della crisi, della denuncia, dello scandalo, della corruzione diffusa, dei rifiuti che si ammassano nelle città, dei delitti che si compiono contro le donne e i bambini. In questa scena che viene somministrata giornalmente da tutti i tipi di trasmissione si alternano poi illustri personaggi della cultura e dello spettacolo che, con tono sommessamente predicatorio, indicano ai cittadini la via per perseguire il bene comune. Credo che l’editoriale di Tarquinio ponga un problema reale, che tuttavia va affrontato in modo molto più ampio e complesso per non limitarsi al solo commento.
Bisogna a mio parere mettere subito in risalto che oggi il valore delle immagini messe in scena dal sistema mediatico ha un’influenza sul modo in cui i cittadini rappresentano se stessi e il mondo che li circonda, tale da condizionare notevolmente le condotte pratiche, e che ancora nessuno ha fatto uno studio approfondito del ruolo per così dire formativo del sistema mediatico nei confronti della mentalità e degli umori che si diffondono nel nostro Paese. Si è provato genericamente a vedere anche nel sistema mediatico una causa della diffusione del berlusconismo, ma non si è approfondito il senso della colonizzazione dell’immaginario che le varie trasmissioni mettono in scena. Basta ricordare quale enorme ruolo ha avuto la rappresentazione scenica della tragedia nella formazione dei cittadini ateniesi, e come la stessa messa in scena avesse una funzione catartica e trasformativa rispetto alle emozioni e alle passioni degli spettatori.
Proviamo perciò a riflettere sui caratteri della nostra rappresentazione mediatica per renderci conto di come essa produca, forse inconsapevolmente, un occultamento continuo della realtà materiale in cui si trovano a passare le loro giornate di lavoro o di ozio gli abitanti del nostro Paese.
La comunicazione politica affidata ai media rappresenta un “ceto” che appare sempre più distante da sofferenze e attese quotidiane. La novità dell’ultimo periodo è che alle parole “rigore” e “sacrifici” viene retoricamente aggiunta la parola “crescita”, con un’enfasi sempre maggiore. I fatti che si squadernano invece nella dimensione del vivere quotidiano sono a dir poco devastanti: la disoccupazione cresce, la corruzione penetra i livelli anche più bassi, le imprese falliscono per mancanza di credito, la solitudine dei giovani e degli anziani traspare dai loro silenzi, lo squallore della vita pubblica lascia pochissimo spazio a iniziative culturali capaci di trasmettere messaggi educativi.
I risultati dell’azione del governo dei tecnici appaiono davvero assai miseri se si pensa che in questo periodo sono venuti fuori mostruosi esempi di corruzione politica che, dalla Lega di Bossi alla ex Margherita, hanno mostrato un traffico di denaro destinato a fini familiari e personali che ci riporta al clima del Basso Impero. Nessuno dei temi che meriterebbero urgenti segnali di svolta è stato affrontato con la decisione e la rapidità necessaria nonostante le continue esternazioni del nostro Presidente del Consiglio. La riforma della pubblica amministrazione è rimasta nei cassetti di Brunetta, la riforma dei partiti è affidata alla saggezza di Giuliano Amato, di fronte al tema dei finanziamenti pubblici Rutelli e il gruppo dirigente della Margherita continuano a difendersi dichiarando che non sapevano nulla delle malefatte del loro amministratore di fiducia. Non si riesce a vedere un barlume che faccia percepire la seria volontà di ridurre il numero dei nostri rappresentanti al Parlamento e al Senato e che cerchi di rimediare a quest’inutile duplicato di lettura delle leggi. Per consolarci da questo spettacolo di macerie il Presidente del Consiglio si preoccupa di sottolineare che in definitiva i suicidi in Italia sono meno che in Grecia e si affretta a esprimere solidarietà all’Agenzia delle Entrate, certo ingiustamente indicata come causa della sofferenza di tanti piccoli imprenditori che hanno deciso di scendere dal treno della vita.
Una trasmissione televisiva che ha cercato di proporre un’innovazione rispetto ai servizi offerti dalla tv pubblica è andata in scena in questi giorni sotto la guida di Fazio e Saviano. La trasmissione ha avuto uno straordinario consenso della maggioranza della stampa, che se n’è occupata con grande rilievo. Certamente si è trattato di una trasmissione intelligente, con le bellissime canzoni di Elisa e qualche lettura degna di ascolto. Ma complessivamente è rimasta uno strano meticciato di spettacolo e approfondimento, senza un vero e proprio filo conduttore che permettesse di capire quale fosse il vero obiettivo perseguito, se intrattenere gradevolmente o spingere gli spettatori a mettere in moto il cervello.
Ermanno Olmi e Pupi Avati sono personaggi di tutto rispetto, ma le loro esibizioni non producono un’autentica partecipazione emotiva agli aspetti di sofferenza che la vita impone oggi a quasi tutte le generazioni. Non vedo, in particolare, quale impulso a pensare e ad agire possa venire da queste testimonianze illustri per uno dei tanti giovani del nostro Paese che, svegliandosi al mattino, si accorge di avere una vuota giornata davanti. Eppure ogni messa in scena dovrebbe essere capace di suscitare partecipazione emotiva, giacché ciò che non si riesce più a realizzare in questo Paese è una vera capacità di condivisione della sofferenza e del dolore degli anziani, dei giovani, dei bambini e delle donne che subiscono una vera e propria emarginazione dal mondo visibile.
Mi ha molto colpito, leggendo una lezione di teologia di un mio amico prete, il racconto dei turbamenti fisici che Gesù Cristo viveva sul proprio corpo prima di compiere un miracolo. Molti passi dei Vangeli raccontano queste scene dopo aver affermato che il Messia si torceva fin nelle viscere. Il senso di questo racconto è probabilmente, al di là dello stesso fatto religioso, l’affermazione di un principio fondamentale: la condivisione del dolore è la prima medicina che può essere offerta a chi soffre.
Dopo i primi risultati elettorali, quasi tutti i commenti hanno teso a isolare il fenomeno del grillismo non vedendo in esso, come io ho cercato di scrivere, una rivolta di giovani contro la spaventosa sclerosi dei partiti e dei gruppi dirigenti. Certo, è un fenomeno forse effimero ma mostra una necessità ineludibile: giovani, esodati, donne picchiate e ferite, anziani che muoiono in solitudine ricevono l’attenzione soltanto di una breve intervista, inseriti in contesti che non ne rappresentano certamente i bisogni materiali e spirituali: risorse economiche e vera solidarietà. Vorrei fare una proposta per porre la riforma del sistema mediatico tra le cose urgenti di questo Paese: affidiamo ai giovani, agli anziani, alle donne la possibilità di parlare direttamente attraverso i media audio-visivi gestendo in proprio delle trasmissioni che raccontino le giornate buie e doloranti di tanti abitanti di questo Paese.
Il racconto della giornata di un anziano che vive da solo e si trova a gestire la propria esistenza con qualche euro di pensione: probabilmente esce al mattino per fare qualche spesa alimentare e poi soggiorna per qualche tempo sulla panchina che si trova sulla strada, osserva la gente correre, vede gli operatori rampanti delle professioni e delle attività più fruttuose transitare sotto i suoi occhi con le valigette dei computer, non riesce a capire perché tanto movimento se poi di fatto non accade nulla di diverso dal giorno precedente, monotamente uguale nella rappresentazione dei telegiornali sull’Europa e la Grecia. Poi si avvierà verso casa e proverà magari a prepararsi un pasto che consumerà da solo.
Dopo un breve riposo proverà, se il tempo lo consente, ad affacciarsi al balcone o a sedersi vicino alla finestra. Aspetterà la fine del giorno senza ricevere né una visita né una telefonata. Poiché ormai anche i poveri posseggono una televisione, la sera cercherà un programma con il quale distrarsi per qualche tempo, poi andrà a letto e farà fatica ad addormentarsi, pensando e ripensando ai tempi della sua giovinezza. Memorie senza rimpianto, perché ormai non riesce a capire se valeva la pena di fare quello che ha fatto.
La giornata di un giovane non comincia presto come quella di un vecchio. Se non va a scuola resta a letto fino a tardi, ascoltando musica con la cuffia per non dare fastidio a chi abita con lui. Non gli interessa né leggere né ascoltare ciò che viene trasmesso sui programmi televisivi. Si alzerà dal letto probabilmente quando è quasi l’ora di pranzo e mangerà in silenzio senza parlare coi suoi parenti, poi di nuovo a letto con la musica più assordante nelle orecchie. Dopo qualche ora comincerà a chattare, trasmetterà e riceverà messaggi che gli daranno la sensazione di essere in contatto con il resto del mondo, si trascinerà fino a sera senza fare nulla che cambi questo ritmo mortifero, poi uscirà per incontrare altri amici che hanno trascorso la giornata come lui ed entrerà in qualche posto affollatissimo di ragazzi che, senza parlare, bevono birra, vino o masticano qualche pasticca, poi comincerà un vagare per le vie notturne e infine, a tarda notte, rientrerà nella sua cuccia. È già una fortuna se non si è aggregato ad un branco che passa la notte sfasciando le cabine telefoniche o picchiando un barbone. Si dice che non hanno voglia di lavorare e che potrebbero, se volessero, emigrare verso zone in cui comunque un’occupazione si trova. In realtà neppure questo sarebbe facile perché il lavoro sta deperendo in tutto il mondo.
Quando mi trovo a rientrare più tardi e attraverso le vie della mia città, in alcune piazze trovo moltitudini di giovani, ragazzi e ragazze, che stanno quasi immobili senza neppure parlare, ma controllano continuamente sui cellulari l’arrivo di messaggi e rispondono a loro volta. C’è un grande affollamento nella piazza e nella rete ma pochissimi giovani parlano e non ci sono neppure le condizioni per comunicare effettivamente pensieri ed emozioni. Sta accadendo in Italia e in Europa una vera e propria strage di giovani intelligenze che si trovano assolutamente disarmate rispetto all’attacco che subiscono dalle generazioni più anziane, che non tanto mantengono i propri privilegi economici senza mollare un euro, ma non concedono loro lo spazio di essere veramente presenti nella scena pubblica. La gran parte dei giovani italiani oggi è assente dalla vita sociale, in una specie di letargo comatoso dove non arriva nessuna luce dell’alba.
È vero quello che scrive Tarquinio, che in mezzo alle macerie di questa società allo sbando ci sono tante manifestazioni di resistenza e di coraggio: ci sono giovani che si fanno anche imprenditori di se stessi e cominciano attività nuove; ci sono anziani che hanno socializzato con qualche vicino e riescono a confortarsi reciprocamente; ci sono esodati che provano a organizzare le proteste e sono costretti per necessità a socializzare con chiunque. Certo non possiamo aiutarli rappresentando catastrofi e non è questo il senso delle considerazioni che vado svolgendo.
Sono stato sempre convinto, come il poeta, che ogni uomo ha un destino di felicità e che lavorando su se stessi si possono scoprire risorse nascoste per dare una svolta alla propria vita, ma questo nostro mondo non può essere salvato attraverso l’eroismo dei volontari che hanno ripulito Genova dal fango o dei ragazzi che si sono buttati in mare per salvare gli emigranti che stavano soffocando. Si deve poter vivere in una società senza che ciascuno sia chiamato a rischiare la vita per provare di esistere. C’è tuttavia una cosa che dipende assolutamente dalla società nel suo complesso ed è quella che i tedeschi chiamano la Stimmung del tempo. Se questa è rappresentata da un mondo audio-visivo dove trionfa l’ipocrisia e la falsificazione, l’atmosfera del Paese non può che essere cupa e scettica. È vero, come scrivono tanti, che la democrazia in Europa è a rischio e che invece avanza lo spettro di movimenti nazionalisti e razzisti, come anche nella realtà francese. Il disastro di una generazione è il disastro di una società, e il disastro di una società è la regressione a uno stato barbarico di nazionalismo razzista.
In un mio recente libro ho cercato di dimostrare che perforando la superficie ovattata delle rappresentazioni pubbliche e partecipando al dolore del mondo nelle sue forme più acute, è possibile operare una trasformazione dell’angoscia in speranza, passando però necessariamente attraverso l’esperienza della condivisione. Non le chiacchiere in libertà né le prediche saccenti possono aiutare chi soffre: bisogna fare diventare “l’altro” protagonista del proprio racconto e rendere pubblico il disagio che ognuno vive nella solitudine, senza confronto e amicizia con gli altri. Il nostro Paese ha più di altri il bisogno di una nuova socializzazione che si può realizzare aprendo le porte ai giovani al confronto con gli adulti e mettendoli in condizione di rappresentare sulla scena i loro problemi e i loro disagi.
Anche il reddito garantito, di cui si parla prendendo a modello altri Paesi, non è la soluzione di questo problema. Non è con qualche briciola di beneficenza che si potrà colmare il bisogno di speranza e di utopia che i giovani incarnano per la loro stessa età. Tutti dovrebbero cominciare a fare autocritica rispetto al ruolo che svolgono, in particolare la classe politica che invoca continuamente la salvezza del Paese senza preoccuparsi della vita materiale di quanti sono occultati nella loro disperazione solitaria.
Nuove trasmissioni autogestite, pagine di giornali e anche nuovi sistemi di selezione dei candidati nelle istituzioni che impediscano le legislature a vita e il perenne riproporsi degli stessi personaggi. Aprire tutte le porte dei castelli e dei fortilizi dove si sono rifugiati i grandi ricchi e gli anziani di questo Paese.