A cento anni dalla nascita, è ancora vivo il magistero di Luigi Heilmann (Portalbera, Pavia, 1911-Bologna 1988), che fu cattedratico a Cagliari (nel 1956), poi a Bologna (1957-1981) e, negli anni a cavallo tra i sessanta e i settanta del Novecento, insegnò la linguistica generale anche nell’Università Cattolica.

Studioso di glottologia indo-europea e camito-semitica, di sanscrito e di filologia indiana, fondatore della dialettologia strutturale in Italia, indagatore delle istanze comuni alinguistica, retorica e stilistica, egli intraprese, tra gli anni cinquanta e settanta del secolo scorso, un profondo rinnovamento nei metodi della ricerca nelle scienze umane.



In un contesto culturale che avvertiva il bisogno di superare le categorie dell’idealismo e del positivismo, Luigi Heilmann propose alla comunità degli studiosi un cammino non facile. Si trattava di introdurre nella ricerca scientifica una metodologia nuova, emersa nel primo Novecento come risposta non polemica e non antitetica alla grande stagione che animò tanta ricerca glottologica del secolo precedente. Quei metodi d’indagine sarebbero rientrati, in seguito, nella categoria dello “strutturalismo”, perché il nucleo del metodo risiede nella ricerca dell’organizzazione che sottende ai fenomeni osservati. 



Era un “cambio di passo” decisivo: non bastava più raccogliere, descrivere e classificare i dati empirici, cogliendone il cambiamento in rapporto alla variazione delle coordinate spazio-temporali e sociali. Non era più sufficiente una prospettiva incentrata sull’intrinseca storicità del fenomeno linguistico – dove “storicità” non riguarda solo il cambiamento sull’asse temporale, ma la natura stessa del dato, che è hic et nunc e dunque si rivela determinato da tutti i fattori costitutivi della dimensione empirica stessa. 

Non si voleva, peraltro, sviluppare una mera linguistica speculativa, disinteressata allo sguardo sul concreto fenomeno. Ai tempi, la speculazione era ben rappresentata dalle pagine crociane su estetica e “linguistica generale” (termine che don Benedetto usò, ma presto confidò che andava inteso come “filosofia del linguaggio”). Come in altre discipline, anche nella linguistica si voleva mantenere la fedeltà ai dati, andando oltre il fenomeno osservabile, per cogliere i principî organizzativi del reale.



In questo divario fra empiria e speculazione si innestava, fin dagli albori del secolo breve, una congerie di proposte cui era comune la preoccupazione della “forma”, del “tipo ideale”, della “Gestalt”, della “Ganzheit” o totalità. Termini diversi, che manifestano una preoccupazione nuova, ma, al tempo stesso, il recupero di una consapevolezza antica: che le parti si costituiscono come tali in rapporto a una totalità nella quale rientrano. Nella concezione che si fa risalire al Cours de linguistique générale (1916) di Ferdinand de Saussure, la totalità è vista come una rete di rapporti che legano e distinguono tra loro gli elementi della lingua: è il principio che sottende all’idea della lingua come sistema où tout se tient, secondo una famosa espressione diffusa da Antoine Meillet, il maggiore discepolo di Saussure. Heilmann conosceva a fondo il Cours, ma anche il famoso Mémoire (1887) sul sistema primitivo delle vocali indeuropee: in questo lavoro pionieristico Saussure ricostruiva i rapporti tra i suoni vocalici e introduceva, per ipotesi, la presenza di certi elementi (detti “coefficienti sonantici”).

L’ipotesi era resa necessaria dalle esigenze poste dal sistema ricostruito: per far “tornare i conti”, si introducevano oggetti non dati all’osservazione. Apparve a molti un eccesso di astrazione; tuttavia, un quarantennio dopo la pubblicazione del Mémoire, Jerzy Kuryłowicz dimostrava che alcuni suoni dell’ittita corrispondevano, per la loro funzione nel sistema, agli elementi postulati da Saussure. Era così verificata la validità del nuovo metodo, che individua il valore di un elemento nelle relazioni con gli altri elementi di una totalità rappresentata come un sistema. Fuori delle relazioni con le altre parti e con l’intero, gli elementi sono frammenti, pezzi isolati. Altro infatti è cogliere i fenomeni, altro è descrivere il principio organizzativo della realtà.

La nuova prospettiva sulla lingua matura dopo gli anni trenta del secolo scorso. A Saussure si aggiungono altre ricerche: a Copenhagen, la glossematica di Louis Hjelmslev; negli Stati Uniti, la linguistica descrittiva di Leonard Bloomfield; in Russia e, poi, a Praga, la teoria fonologica del principe Nikolaj Sergeevič Trubeckoj. Quest’ultima, in particolare, cattura l’attenzione di uno Heilmann intento a elaborare nuove ipotesi sui fenomeni del mutamento linguistico. Tra i primi saggi innovativi, vi è un articolo uscito nel 1952, sulla ricostruzione del sistema fonologico dell’etrusco. Anni dopo, facendo un bilancio della sua esperienza di cattedratico, Heilmann stesso ricorda: “Nessuna delle spiegazioni fino ad allora proposte mi soddisfaceva (…) L’acquisizione del concetto di ‘struttura’ e l’applicazione di un’analisi strutturale ai dati a mia disposizione mi consentirono invece di formulare le proposte contenute in un articolo che ancor oggi io ritengo valido (…)” (L. Heilmann, Dallo strutturalismo linguistico alla linguistica del testo, ora in Linguistica e umanesimo, Il Mulino, Bologna 1983, p. 242).

A segnare l’avvio della linguistica strutturale in Italia è soprattutto la monografia di Heilmann sulla Parlata di Moena nei suoi rapporti con Fiemme e con Fassa. Saggio fonetico e fonematico, uscita a Bologna, per i tipi di Zanichelli: è il 1955, che rappresenta “a more appropriate date for the birth of structural linguistics in Italy. It was a systematic work with a clear stand of its own with respect to various existing structuralist positions. From his chair in Bologna Heilmann has also built up an authentic school of structural linguistics” (Cesare Segre, Structuralism in Italy, “Semiotica”, III, 1971: 220). 

Si compie in tal modo un mutamento prospettico decisivo nella scienza linguistica: da una scienza descrittiva si giunge a una scienza esplicativa, che vuole “spiegare”, cioè descrivere i processi non osservabili che danno luogo ai dati osservabili. Ma il funzionamento della realtà non è accessibile: non vediamo i principî organizzativi, vediamo i dati prodotti. È allora necessario costruire un modello della realtà non osservabile. 

 

Quel modello funziona come la porzione di realtà nascosta che è responsabile della realtà che si manifesta: la struttura è dunque intesa come un modello con cui lo studioso si propone di rappresentare l’analogo funzionale della realtà. Ecco lo strutturalismo di Heilmann: la lingua è animata da un principio organizzativo che lo studioso rappresenta mediante il concetto di struttura, cioè di un “tutto organizzato” in vista di un fine, che per la lingua è la comunicazione.

La figura e il magistero di Luigi Heilmann sono ricordati giovedì 24 maggio, a Milano in Università Cattolica. Intervengono gli allievi Eddo Rigotti, Guido Michelini e Stefano Arduini.