Aura e choc. È suggestivo il titolo del libro in uscita in questi giorni da Einaudi e che raccoglie alcuni stupendi scritti di Walter Benjamin sull’arte. L’aura e lo choc rappresentano due modalità di rapportarsi con quelle grandi opere che a volte segnano la nostra vita. Proviamo a sintetizzare. L’aura è quello stupore che travalica l’analisi della ragione e porta quasi ad un’immedesimazione con l’opera: il caso più celebre credo sia quella potente attrazione che legò Marcel Proust a un capolavoro di Vermeer, La Veduta di Delft. Uno dei protagonisti (suo alter ego, evidentemente) della Recherche addirittura muore davanti a quel quadro. E il suo sguardo sin all’ultimo si lascia sorprendere da particolari che gli sembra di vedere per la prima volta: «Una piccola ala di muro gialla, di cui non si ricordava, era dipinta così bene da apparire, a guardarla isolatamente, simile ad una preziosa opera d’arte cinese, di una bellezza che basta a se stessa». Dice Benjamin che la ricezione di un’opera spesso avviene per tramite delle cose piccole e piccolissime, che non bisogna confondere con il capriccio. Le piccole cose sono quelle attraverso cui viene a galla il “fenomeno originario” che fa di un’opera, un’opera d’arte. Si può dire sinteticamente che quello evidenziato da Benjamin sia un modo di pensare poeticamente. C’è pensiero, ma avanza a forza di intuizioni poetiche.



All’opposto dell’aura c’è lo choc. E qui i ruoli si invertono. O quanto meno si sbilanciano nettamente verso uno dei due poli. Chi guarda, il soggetto, viene travolto dall’energia inaspettata generata dall’oggetto, ovvero l’opera d’arte: non occorre una predisposizione, e non occorre neppure dopo che scatti una simpatia verso quell’oggetto che ci ha presi in contropiede. Quello che resta è quasi un trauma, una ferita a volte, per troppa bellezza o per troppa novità. Lo choc è come un salto nel vuoto a cui l’arte ti costringe senza che si abbia neppure il tempo di capire da che parte stia andando.



C’è un testo (che ritengo tra i testi più importanti della mia formazione; ma certo non solo mia…) che descrive in maniera straordinaria questa dinamica: è il saggio che Roberto Longhi scrisse nel 1940 sugli affreschi della Cappella Brancacci. In quel saggio, dove per la prima volta venivano chiaramente distinte le parti che spettavano a Masolino da quelle che invece erano di Masaccio, Longhi immagina i dialoghi che potevano essere avvenuti sui ponteggi della Brancacci tra il vecchio maestro che guardava il suo giovane aiuto fare cose di una novità inaudita, che non potevano non affascinare ma che certamente lo terrorizzavano. Lo choc procurato da Masaccio (poco più che ventenne) consisteva in un’accelerazione che faceva immediatamente percepire come stantia e inespressiva la vecchia pittura, pur così poetica, di Masolino. Davanti ai corpi veri e “moderni” di Masaccio (come scrisse Longhi, così veri da gettare ombre: ed erano le prime ombre della storia della pittura), le delicate sagome di Masolino si eclissavano come esili figurine.



La storia dell’arte, per lo meno da che il giovane Giotto si palesò nella navata della Basilica superiore di Assisi dipingendo le due scene della vita di Isacco, è sempre andata avanti a furia di choc. Sono quelli che il mio amico Luca Doninelli definisce “numeri primi”: opere che non sono prodotto di fattori precedenti, ma che sono il risultato di un imprevedibile e a volte vertiginoso salto in avanti. Opere da cui tutti sono costretti a “ricominciare”.

Tra aura e choc si potrebbe pensare che la prima è una forma di ricezione che si allunga nel tempo (Proust guarda Vermeer a quasi tre secoli di distanza), mentre il secondo si esaurisce dopo che la folgorante novità è stata metabolizzata. Invece non è così. Perché il fattore “choc” resta come un fattore costitutivo di quelle opere: il rischio che hanno corso per poter essere le segna sempre nel profondo. Così la sfida per noi è quella di saperle guardare, per scovare quel che di “inaudito” c’è sempre in loro. Garantisco che un percorso così apre ad una conoscenza vera di quelle opere, e poi a “frustate” emotive che non si dimenticano. Provare a guardare quelle opere con l’occhio di chi le vide per la prima volta, liberare quelle energie che sguardi e analisi troppo schematici e pedanti hanno addomesticato: è un percorso che porta un impatto travolgente. È l’oggetto-opera che torna all’assalto del nostro sguardo.

Nella ricezione ad “aura” prevale il soggetto; in quella a “choc” prevale l’oggetto. Per quanto adori Benjamin, io sono per lo “choc”. Se volete fare un’esperienza, andate nella sagrestia vecchia di San Lorenzo a Firenze. Guardate da vicino le due porte di bronzo di Donatello, con gli apostoli a coppie che discutono con tanta vis da sembrare a volte azzuffarsi tra di loro. Immaginate lo choc del grande Brunelleschi, che aveva disegnato quello spazio straordinario, nel vedersi arrivare le opere di quello scultore scatenato. Non le rifiutò. Ma a Donatello, capito il vento, non restò che partire per Padova…