Uomo solo dinanzi all’inutile mare,
attendendo la sera, attendendo il mattino.
I bambini vi giocano, ma quest’uomo vorrebbe
lui averlo un bambino e guardarlo giocare.
C. Pavese, 1934-’40
Il riferimento alla raccolta pavesiana non è spunto esteriore per queste riflessioni sulla catena di suicidi da parte di imprenditori, particolarmente esposti ai colpi della crisi economica. Chi è l’imprenditore? Quale il senso soggettivo del suo “imprendere”, del suo operare? Come c’entra il denaro? Come c’entrano anche altri fattori? Quali sono? Su quali far leva per pensare del nuovo? Domande che prendono in questo momento tutto il loro rilievo clinico-etico. Da qualche tempo, sono coinvolta, con dei Colleghi psicoanalisti, in una riflessione che ha preso le prime mosse da questa emergenza dei suicidi, su cui ci sono arrivate richieste di intervento ma su cui ci stiamo interrogando a raggio più ampio: il lavoro è centrale nell’esistenza umana, eppure il suo significato psichico non è sempre così a fuoco nella riflessione clinica.
Strana omissione, poiché nel lungo percorso freudiano lo troviamo come termine forte, tecnico, per definire la realtà psichica in quanto non meccanica ma orientata verso una produzione e una innovazione. L’oscena menzogna dell’Arbeit macht frei dei campi nazisti ne sembra una diabolica mimesi. Strane coincidenze…
E tuttavia, la fatica di chi lavora – che appassiona e compassiona Pavese in modo profondamente toccante – sembra varcare oggi un limite ancor più spaventoso del maligno sfruttamento: la sua potenziale cancellazione. Si va dal pane sudato al pane elargito, che significa espropriato del suo residuo valore di scambio, in qualche modo annullato.
Sottrarre all’uomo la legittima fatica del suo lavoro – nel buco nero economico che stiamo affrontando – ci obbliga come clinici ad affacciarsi su un timore quasi sconosciuto. In effetti, le serrate primonovecentesche non appaiono forse più inquietanti e maligne d’ogni sciopero, per quanto duro e impoverente? Impedire il lavoro, cancellarne la portata vitale, è qualcosa che va perfino oltre le tensioni legate all’iniquità dello sfruttamento, alla misteriosa mortifera circolazione del plusvalore.
Per continuare con Pavese:
I lavori cominciano all’alba. Ma noi cominciamo
un po’ prima dell’alba a incontrare noi stessi
nella gente che va per la strada… La città ci permette di alzare la testa
a pensarci, e sa bene che poi la chiniamo.
Questa rapina del lavoro sembra dunque l’ultimo modo di farci “chinare la testa”, l’ultimo grido dello sfruttamento, mirato a una espropriazione della soggettività da parte di quello che Jacques Lacan chiama “discorso capitalistico”, che – a differenza di altri legami sociali in cui il soggetto è implicato secondo dialettiche e confronti – mette in atto una riduzione dell’uomo a merce, inscenando un’equivalenza perfetta del soggetto con un oggetto che lo presentifica come pura merce, a livello degli scambi di mercato, senza spazio per altre logiche.
Non più terzomondo, oggi, non più proletariato e sotto-, non più rivolte e cortei anni settanta. La “libera” circolazione delle merci realizza − a-soggettivamente, a-nonimamente − la cancellazione della singolarità della persona, la sua eccedenza rispetto a qualunque attributo o rappresentazione. Il lavoro ha visto ridursi progressivamente quel margine di valore incalcolabile, margine di impagabile gratuità che distingueva il lavoro artigiano e la sua preziosità. Arte, appunto. Divenuto esso stesso merce nella logica dell’accumulo capitalistico, il lavoro sembra vedere ora − proprio in questa aleatorietà − un ulteriore depauperamento libidico.
Per questo stupisce che − di fronte ad ogni nuovo atto suicidario − i media sembrino in vario modo chiedersi “Ma che succede?!” − chiedersi e anche rispondersi, con legittime sensatissime osservazioni: gli equitagli sono drammatici, certo, ma figli e famiglia non valgono ben di più? Legittime sensatissime risposte, ma la questione che si profila, grave, non va chiusa con troppa facilità, perché implica più piani, è situata in una complessità da cui si intravvedere la dimensione etica e politica della clinica.
Certamente − a un primo livello − ci si chiede perché mai debiti e fallimenti, spesso determinati da altrui responsabilità, portino a questo atto “ultimo”, chiusura − questa sì − definitiva con la vita. Com’è possibile che prima di questa scelta irreversibile non si veda che, al di là dell’azienda che “si chiude”, ci sono invece gli affetti, che valgono e che invece non si chiudono, e la vita che comunque può riaprirsi e − forse − ancora sorprendere?!
Su questo piano si può subito osservare che l’essere umano, da che viene al mondo − si mette in moto e si apre alla relazione a partire da elementi che lo fanno consistere attraverso un’immagine di sé che l’altro sostiene e rimanda, preziosa immagine in cui il soggetto si trova profondamente radicato perché è a partire da lì che si vede amabile, dall’altro come da se stesso, punto di identificazione, tanto fragile quanto difficile da lasciare, difficile da sostituire con del nuovo e ignoto. Stratificata nel tempo e negli incontri, la presa di queste prime identificazioni risulta sempre più forte nel definire la persona, come sa bene chi opera nel campo clinico, e per questo i mutamenti a questo livello sono lenti e incerti. Dunque − se qualcosa infrange brutalmente queste preziose antiche radici dell’identità − può risultare estremamente difficile che la persona continui a sostenersi, e non senta e non veda come soluzione unica il precipitarsi nel buco nero, nell’annullamento, nell’assenza di orizzonte e di prospettiva, nella radicale disperazione di non esser più amabile, privato di un riconoscimento essenziale al vivere: così, chi ha speso la vita nel sostenersi-sostenere altri nella sicurezza e negli agi, fonte di un conseguente riconoscimento sociale più ancora che economico, può sentirsi precipitare in un buio senza fondo, quando questa posizione vien meno, si frantuma, si consuma nel fallimento, lasciando emergere una maschera insopportabile di vanitas. Siamo abituati a identificare “immaginario” con “effimero”, ma sappiamo bene – perfino con Mc Luhan, che non è uno psicoanalista! − che non c’è niente di più erroneo: non è per caso che siamo preda del quarto e ben di più del quinto potere: civiltà “inghiottita dall’immagine”.
E tuttavia, non è questo livello, pur esplicativo di una devastazione identificatoria, a rendere particolare questa impressionante catena di morte, tale da interrogare profondamente chi opera in una clinica orientata nei “legami sociali”. Non si tratta infatti di trovar senso clinico alla scelta suicidaria… La sua ricorrenza attuale − non certo da cogliere nel suo interesse statistico − induce riflessioni su riferimenti identificatori e simbolici su ben più vasta scala. Nella luce sinistra di questi mesi, sembra entrar in gioco qualcosa che è stato poco messo a fuoco dalla cultura classica della consultazione, che deve qui far valere il suo strutturale radicarsi in una logica di legame. Nella drammatica provocazione dei suicidi, si tratta di cogliere in termini clinico-strutturali proprio la dimensione libidica del lavoro e le conseguenze socialmente incalcolabili della sua deprivazione.
La si può cogliere sul singolo, come appunto risulta dai suicidi degli imprenditori, dalla muta domanda che essi sottendono, svuotati di ciò che causa il loro desiderio, di ciò che fa “impresa”, opera, incidenza. Tuttavia, il vero punto su cui altrettanto se non soprattutto ragionare sono gli effetti che si producono, a ritmi sempre più serrati, sulle generazioni di “adulti” prossime venture, che già da ora si trovano nel paradosso di un presente in cui il futuro è irrappresentabile. In questo presente-senza-futuro, i nuovi nati che si affacciano alla vita possono esservi ospitati solo come figli, non quindi già impegnati verso una logica di emancipazione, ma fissati nella necessità di una dipendenza interminabile (economica e quindi psichica) da genitori sempre più attivi e longevi, cui dovranno affidare i loro piccoli da accudire per potersi “permettere il lusso” di un lavoro. Sono quelli i veri grands parents, come si dice in francese… I grandi, gli adulti, arrivati ed efficienti, cui i “piccoli genitori” rischiano di restare in una soggezione a vita. Privati della dolorosa ma salutare montaliana “fine dell’infanzia”, piccoli genitori non crescono, restando al di qua della contingenza delle scelte, del rischio di responsabilità assumibili. Anche a non voler invocare le Scritture − e l’uomo che deve lasciare il padre e la madre… − gli effetti regressivi di questa non-separazione non sono da tempo − a ben vedere − nelle cronache quotidiane?
In vesti diverse: come infatti non intendere che una simile deresponsabilità generalizzata rischia di “far ritorno nel reale” di separazioni brutalmente agite, che vuol dire non simbolizzate, non accadute psichicamente, che possono realizzarsi come violenza distruttiva anche a livello intrafamiliare. Da Novi e Cogne ai maltrattamenti di ogni tipo che sempre di più vengono messi in atto in famiglia, ai bambini oggetto, “buttati”: nei cassonetti o giù dalla finestra, come da recentissima notizia di cronaca, gadget divenuti inservibili… Atti che sono pietre al posto di parole non più dicibili, non più articolabili, fuori discorso, fuori speranza. La possibilità di separarsi dalla propria dimensione infantile, la chance singolare della crescita, il diritto a un “passaggio all’adulto”, alla “rivolta giovanile”, ai figli contro i padri come nei mitici anni 70, vengono sostituiti dai modelli anonimi e generalizzati delle dipendenze, forme di godimento forzato, individualistico, senza legami viventi, secondo immaginari spesso aggressivi e del tutto virtualizzati, come videogiochi recitati secondo spartiti già scritti di un funebre teatro. Gli hikikomori, i ragazzi giapponesi chiusi nella loro stanzetta, isolati anche al loro mondo familiare, paghi solo di legami notturni e virtuali, senza corpo e senza scambio, realizzano alla lettera questo destino.
Come non leggere proprio in questi rituali di morte sociale, specie giovanile, un macroscopico rifiuto di quella dipendenza strutturale dalla relazione, che è dimensione reale della soggettività, che ci fa uomini, esistenze che, in questa “aiuola che ci fa tanto feroci”, devono fare comunque i conti con il loro essere insieme, con la natura misteriosa ma anche esaltante dei loro legami.
Allora tanto più il lavoro − nella sua dimensione di investimento vitale − non può non interrogare una clinica che si regoli sui “legami sociali”. La sua sottrazione mortifera risulta centrale in una lettura del malessere contemporaneo, oltremoderno, direi, più che postmoderno, per accentuarne l’eccedenza piuttosto che la cronologia.
Interrogarsi su questi suicidi è quindi radicale, e sulle forme cliniche con le quali affrontarli, leggendone in anticipo la domanda, predisponendo luoghi nei quali ascoltare e rilavorare il capolinea mortifero come punto da mettere invece a un lavoro di pensiero: la perdita di immagine − sentita in malinconico contrasto con un ideale che soldi e prestanza hanno fino a quel momento sostenuto − può aprire a del nuovo, può trovare, inventare legami inediti? Chi pensa all’atto estremo è davvero − ancora secondo Pavese − “uomo solo dinanzi all’inutile mare”? per il quale “l’attesa della sera, l’attesa del mattino” è finita, per cui niente arriverà più a sostenere una identità vivibile, che diviene muro invalicabile.
Un lavoro clinico che stia su questa frontiera senza luce, implica in effetti una riformulazione anche culturale di questo limite del vivibile, di ciò per cui vale la pena, che non è commisurabile alla prestanza dell’immagine, ma è un reale con cui confrontarsi, che potrebbe, forse, far sorpresa, che potrebbe, forse, arrivare a mettere in gioco nuovi percorsi, il recupero di dimensioni antiche e magari un tempo scartate, l’apertura di squarci relazionali e valoriali inediti. Un futuro, ancora… Come la piccola Speranza di Péguy, un domani bambino, potendo – ancora… − “guardarlo giocare”.