Con che occhi un credente può guardare oggi ai quadri di Francis Bacon, il grande e “scandaloso” pittore inglese morto proprio 20 anni fa? Con uno sguardo sulla difensiva, come a proteggersi da una tempesta di negatività, o con uno sguardo sollecitato dall’urgenza e dalla profondità che il pittore inglese propone? La domanda torna d’attualità non solo perché Bacon resta uno dei pochi giganti del secondo Novecento ma anche perché un paio di settimane fa è stata riproposta da un critico importante come Marco Bona Castellotti sulla prima pagina de Il Foglio. La risposta di Castellotti è stata drastica: quella di Bacon è arte senza redenzione, e quindi radicalmente anticristiana, per quanto spesso faccia ricorso a soggetti propri dell’iconografia cristiana.



Mi permetto di dissentire e di suggerire un approccio a Bacon che non si faccia condizionare da alcuni preconcetti, compresi quelli che lui stesso, con le sue dichiarazioni e i suoi atteggiamenti paradossali, ha disseminato attorno alla propria opera. Spesso la biografia degli autori finisce con il condizionare malamente lo sguardo sulle loro opere: pensiamo al caso di Van Gogh, artista che come pochi ha saputo restituirci lo splendore folgorante della realtà, a dispetto di una vita ferita dalla malattia mentale e dalle sconfitte.



Ovviamente sarebbe ridicolo “scoprire” in Bacon un cripto-cattolico. Però esistono alcuni dati di fatto ai quali si deve trovare qualche spiegazione. Per esempio questo: nel 1943 Bacon, nel pieno dell’incubo della seconda guerra mondiale, esordisce con un Trittico, oggi esposto alla Tate di Londra, che comunque la si pensi resta uno dei capisaldi della pittura del 900. Il titolo è Tre figure ai piedi della Croce. Perché Bacon sente la necessità di ricorrere proprio a questo soggetto per esprimere la profondità della tragedia di quel frangente storico? E perché deve rafforzare questa sua scelta scandendola nella struttura così tradizionale del trittico? A quale necessità obbediva Bacon seguendo questa strada? Domande che erano state poste anche a lui in vita e a cui lui aveva risposto sempre in modo un po’ elusivo: dovendo rappresentare quella coscienza drammatica sul destino dell’uomo non aveva trovato altra immagine più pertinente che quella della crocifissione. Una scelta formale, sembrerebbe. Eppure l’immersione che Bacon attua dentro quel soggetto non è casuale né pretestuoso: dopo quelle Figure ai piedi della Croce arriveranno altre Crocifissioni, spesso ispirate al prototipo di quella di Cimabue di Santa Croce (e per il cui restauro dopo il disastro dell’alluvione del 1966 Bacon aveva fatto un cospicua donazione in anonimato). 



Sono immagini impressionanti, che non possono lasciare indifferente nessuno, che investono l’osservatore con tutta la loro violenza e la radicalità delle domande sollevate. Non a caso un grande critico come Michel Leiris aveva indicato nella parola “presenza” la parola chiave per capire Bacon: «Presenza», ha scritto, «nel senso in cui la intendo, designa qualcosa di più che la sola presenza del quadro nella porzione di spazio in cui mi trovo… designa presenza lancinante dell’animatore del gioco (cioè di Bacon, ndr) e mia personale presenza di spettatore, strappato ad una troppo abituale neutralità e portato alla coscienza acuta di essere lì – in qualche modo presente a me stesso – dall’esca che mi è tesa». Il risultato è questo: che dopo decenni di presenza marginale ed evanescente, la figura di Cristo tornava con Bacon ad essere un fatto terribilmente presente e reale. Si dice che la pittura di Bacon sia insopportabilmente scandalosa nella sua brutalità: mi chiedo se lo scandalo non sia determinato piuttosto dal fatto di aver reso irriducibile e reale quella presenza da tanto banalizzata o edulcorata.

Un’ultima osservazione: a volte sui quadri si gettano sguardi già prefabbricati. Se si evita questo, nella pittura di Bacon si possono scoprire tante cose. Ad esempio che i suoi quadri hanno quasi una struttura a vortice, che risucchia verso un punto in cui la pittura prende un’intensità che mette quasi paura (e che lui steso a volte indica, didascalicamente, con una freccia). Guardando quelle zone dei suoi quadri si resta sorpresi da come, proprio lì, la pittura si faccia di una bellezza inattesa e a tratti folgorante. È pittura che vibra, che sembra lì lì per farsi vita. O meglio, carne. Bacon ha una coscienza formidabile, quasi istintiva, della bellezza creaturale della carne, una bellezza che è un nascere ma anche un morire. Ovviamente è un qualcosa di approssimabile e non possedibile: per questo la forza di Bacon (e anche la sua verità) sta proprio in quei centimetri quadrati in cui lascia che il quadro gli sfugga quasi di mano e scivoli oltre se stesso.

Per tutti questi motivi penso che per un credente oggi sia molto interessante tenere bene aperti gli occhi sull’opera di Francis Bacon.

 

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