Oltre cinquant’anni fa la scrittrice russa Nadezda Mandel’stam scriveva: “Di tutte queste stragi di massa, guerre, lager, camere di tortura, esiste una diffusa conoscenza ma non altrettanta consapevolezza”. Questa frase si adatta perfettamente alla nostra situazione di uomini post moderni, sopraffatti da una massa spropositata di informazioni che lasciamo scivolare via perché l’indifferenza è la miglior difesa. Per noi, che sappiamo tutto ma che non ci lasciamo toccare da niente, una storia “scientifica” fatta di numeri e percentuali è l’ideale, una comoda astrazione: 20, 40, 60 milioni di morti non ci impressionano (sono solo cifre).
In questo senso possiamo capire quanto sia stato geniale il tentativo degli storici russi che vogliono dare un nome e un volto a tutte le vittime del regime sovietico: dei numeri, specie quando sono enormi, rischiano di restare astratti, mentre dei volti e dei nomi ci interpellano, ci agganciano, diventano immediatamente qualcosa di reale. Un compito titanico che non verrà mai portato a termine ma che intanto ha messo a disposizione, per chi lo vuole, 3 milioni di “casi” individuali. Questo personalismo capace di sfondare il muro delle opinioni politiche e dell’astrazione non si dà casualmente e non si dà a tutti, ma è il frutto di una secolare tradizione cristiana che è mancata in altri paesi (come la Cina), dove la tragedia consumata nel XX secolo non è stata minore, ma dove questo livello di consapevolezza non si è mai raggiunto e immense masse umane sono state cancellate senza possibilità di recupero e di memoria. Di questa posizione culturale siamo totalmente debitori alla Russia e dobbiamo farne tesoro, tanto più che molte pagine della nostra storia recente aspettano ancora d’essere esplorate con questo criterio.
Questo modo di fare memoria è un’acquisizione abbastanza recente, dopo che per decenni il comunismo sovietico era stato affrontato in maniera reattiva; a lungo la memoria del totalitarismo comunista è stata una memoria polemica, accusatoria, tutta tesa a sottolineare l’enormità del male compiuto, la cattiveria dei responsabili. Questo era l’anticomunismo classico che aveva ogni possibile giustificazione morale e politica, vista l’enorme violenza e la menzogna che il Paese aveva subito, ma che in prospettiva si è dimostrato troppo povero, asfittico. Ora il semplice anticomunismo non tiene più perché il comunismo non c’è più, ma soprattutto perché è cambiata la coscienza di quanto è accaduto, della complessità dei fatti, delle corresponsabilità, della natura del totalitarismo. Di conseguenza anche lo stile del fare memoria è cambiato.
È avvenuto il passaggio dalla memoria “polemica” alla memoria autentica, che abbraccia la complessità dei fatti alla luce di ciò che edifica la civiltà umana. Questo passaggio è tanto più necessario nella memoria del male. In Russia oggi la scuola degli storici che lavorano sul XX secolo educa a un lavoro accurato di ricostruzione non ideologica, non polemica ma scrupolosamente fattuale del totalitarismo, dove il punto cruciale è che l’interesse per i sottili meccanismi del potere non è fine a se stesso ma sottende un interesse più essenziale per l’uomo come centro e fine del divenire storico.
Questa infatti è la lezione principale ricavata dall’esperienza totalitaria: che sostituire alla persona un’idea, anche bella, produce violenza e degrado della civiltà, e l’unico modo per vincere questa violenza è il recupero della persona. Così la vera memoria del totalitarismo è interessante ed efficace se e perché rileva tutte le forme di resistenza che la persona ha saputo mettere in atto contro forze preponderanti. Nonostante tutto non si è mai dato finora un momento storico da cui la persona sia stata totalmente e definitivamente esclusa dal gioco, anche se si è fatto molto per arrivare a questo: poteva essere un piccolissimo gruppo clandestino come la Rosa Bianca o, ancor meno, l’estremo sguardo di dignità lanciato dalla vittima al suo carnefice.
L’elemento universale che lega esperienze storiche così diverse come il totalitarismo del XX secolo e il nichilismo dell’umanità postmoderna, è proprio la persona che in qualsiasi condizione può dire “io”; per questo è interessante qualsiasi tentativo di valorizzare questa irriducibile presenza nella storia. Incontrare faccia a faccia le persone che hanno vissuto le tragedie del passato può più facilmente risvegliare la nostra coscienza sonnolenta in modo che – anche per noi oggi come un tempo nei campi − possa avvenire quel “passo” dalla conoscenza alla consapevolezza che la Mandel’stam auspicava, come l’irrompere dell’“io” che giudica e si assume le proprie responsabilità.
Il futuro del mondo dipende in gran parte dalla presenza dell’io. Molti testimoni sopravvissuti alla violenza totalitaria hanno affermato che la forza che li ha sostenuti è stata la speranza di sopravvivere per poter raccontare affinché, dicevano, un male così non si ripetesse più. Come a dire che conoscere gli orrori del passato può bastare a evitarne di nuovi; ma non si capisce per quale motivo, su che base, noi o i nostri posteri dovremmo evitare le tentazioni del passato. Il ribrezzo morale non basta, e infatti l’esperienza storica ha dimostrato, purtroppo, che le speranze dei sopravvissuti erano vane.
Perché gli orrori del XX secolo non si ripetano ci vuole la piena coscienza delle scelte intellettuali che portano l’uomo a volere tanto male, ma ci vuole anche qualcosa di più decisivo, perché nella storia dell’uomo non funziona una sorta di passaggio meccanico che potrebbe eliminare il male solo in forza della conoscenza delle leggi della storia. La vita dell’uomo è il regno della libertà, occorre quindi un’assunzione di responsabilità personale.
Lo storico russo Arsenij Roginskij ha detto che la necessaria conoscenza del totalitarismo, indispensabile per non essere preda di miti e contraffazioni, è ipocrita se ci ispira solo orrore dei carnefici; noi tutti dobbiamo sentirci chiamati a rispondere personalmente di questo dramma della libertà.
L’autrice ha curato, insieme a Lucetta Scaraffia, La vita in uno sguardo. Le vittime del Grande Terrore staliniano, Lindau, 2012