«La vita di Keith Haring è probabilmente più interessante dal punto di vista umano che artistico, perché rappresenta quella stagione americana che, insieme ad una eccezionale libertà espressiva, scopre il dramma dell’AIDS. L’energia sprigionata da Andy Warhol aveva aperto un particolare modo di vivere l’arte, ma paradossalmente nel momento in cui anche Haring scopre questa esperienza, dovrà fare i conti con la malattia». E’ l’esperto d’arte Giuseppe Frangi a raccontarci la vita e la carriera di Keith Haring, pittore e writer statunitense nato esattamente 54 anni fa, a cui oggi Google dedica il suo logo. «La celebre “triade” di quel tempo – continua a spiegarci Frangi – era costituita proprio da Warhol, Jean-Michel Basquiat e Haring, a cui poi si unisce anche un italiano, Francesco Clemente». Haring è considerato uno degli esponenti più singolari del graffitismo di frontiera, e i suoi lavori hanno certamente rappresentato la cultura di strada della New York di quel decennio. «Più di ogni altro, Haring ha scoperto e vissuto la strada, non per un semplice atto di ribellione, ma per far emergere una sorta di arte collettiva. I suoi graffiti venivano progettati e creati alla luce del sole, con un’espressione d’arte che si può definire partecipata, a cui assisteva anche la gente, come fosse una sorta di festa. L’arte di Haring piaceva ai giovani, ma non era alternativa, anzi cercava di esprimere a livello urbano, sui muri, il senso di una comunità in parte perduta».



Haring per diversi anni insegnò arte ai bambini e, dopo aver scoperto di aver contratto l’HIV, fondò la Keith Haring Foundation, a favore dei bambini malati di AIDS: «Questa era una delle caratteristiche più belle di Haring, e la sua grande capacità educativa è in qualche modo riscontrabile nella sua arte, che per certi versi può essere considerata anche infantile, ma protratta verso l’adolescenza e la maturità. E’ come se in qualche modo l’artista conservasse il bambino che è in sé, che si nasconde in quei disegni, quei loghi che abbiamo visto impressi un po’ ovunque. 



Una sorta di semplificazione artistica, come una infanzia espressiva che si era protratta anche al di là dell’età anagrafica. Haring non è un genio, non è un grande, insomma non è Andy Warhol, ma è stato capace di mettere un timbro sul suo tempo, di leggerlo e accompagnarlo verso una nuova libertà».

 

(Claudio Perlini)    

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