Sono rimasto assai colpito dalla lettera con la quale don Julián Carrón ha scritto al direttore di Repubblica per manifestare con grande sincerità il senso di mortificazione e di sconforto provato in queste settimane di fronte agli interventi continui e pressanti dei giornali che hanno denunciato le condotte di uomini appartenenti ai vertici di Comunione e Liberazione. Formigoni avrebbe creato un sistema costituito da canali privilegiati e relazioni più o meno fiduciarie che probabilmente sfuggono a una qualificazione giuridica in termini di diritto penale ma che sono il segno di un possibile abuso di una posizione di potere.



Indubbiamente il sistema mediatico del nostro Paese sta assumendo come linea di intervento nella vita pubblica l’attacco personale e la delegittimazione di ogni esponente politico di rilievo, come per altro è accaduto in questo stesso periodo nei confronti di Bossi e del suo entourage che sicuramente ha tratto vantaggi personali dalla posizione di capo indiscusso del proprio leader. Confesso che non provo alcuna simpatia per un tipo di giornalismo tendente essenzialmente a produrre la continua esplosione di scandali che in ultima istanza favoriscono quella deriva populista e antipolitica che sta attraversando il nostro Paese. 



Ma la questione posta dalla lettera di Carrón si colloca giustamente al di là e al di sopra di questa situazione di per sé torbida ed inquietante. Anzitutto Carrón dichiara senza mezzi termini che, qualunque sia la fondatezza delle accuse, è per lui fonte di dolore costatare come la missione spirituale di Comunione e Liberazione sia coinvolta in vicende poco edificanti che possono minare la credibilità della stessa missione evangelica che Carrón considera essenziale per l’identità del movimento di cui egli stesso è il punto di riferimento etico. Carrón non ha alcuna difficoltà nell’ammettere che, nonostante le montature che possono esserci state, resta tuttavia il fatto che esponenti importanti del movimento siano percepiti come uomini di potere e non come uomini di fede, e che la loro attività sia esattamente il contrario della coerente applicazione delle proprie convinzioni religiose. 



Come appartenente alla storia del Partito comunista italiano non posso non capire la sofferenza che Carrón manifesta nell’assumersi pubblicamente la responsabilità anche dei comportamenti devianti, e nel chiedere ai militanti del movimento di Comunione e Liberazione di farsi carico della necessità di combattere in ogni modo le spinte alla personalizzazione del potere e alla creazione di sistemi autoreferenziali in cui la gestione delle risorse pubbliche non è espressione di una logica caritatevole, ma di un narcisistico bisogno di stare sulla scena pubblica solo per il potere che si esercita. All’interno del mio partito funzionavano regole molto rigorose di controllo e il mito dell’onestà personale assumeva un vero e proprio carattere ideologico distintivo. Perciò ho vissuto anch’io con molta sofferenza le situazioni in cui specialmente il rapporto tra il partito e il mondo delle cooperative rosse lasciava intuire collusioni con i poteri economici e con i comitati d’affari nell’assegnazione degli appalti pubblici. Nella mia esperienza ho sempre combattuto anche la logica semplicistica che il fine giustifica i mezzi, e che per finanziarie le “opere buone” del partito si poteva consentire a soggetti collaterali di partecipare agli affari delle “opere cattive”.

Purtroppo viviamo in un’epoca in cui l’idea per cui bisogna conquistare il consenso fondamentalmente col proprio esempio pratico e con la propria vita specchiata è stata progressivamente sostituita dalla costruzione di sistemi di potere che assicurano consensi sulla base del puro scambio di privilegi e protezione alla cerchia dei propri “clienti”. Ciò che succede in questo momento al governatore della Lombardia appartiene a una fase storica del nostro Paese in cui affarismo e occupazione di potere hanno creato una perversa catena di piccoli abusi e di piccoli vantaggi che rendono assai poco credibile ogni impegno politico. Nel vecchio Pci in cui sono vissuto, l’idea della politica come servizio veniva assunta come un carattere genetico. Il tema posto da Carrón, come ha sottolineato Violante, in realtà riguarda tutta la vita pubblica del nostro Paese, lo stile di comportamento e le condizioni etiche che rendono credibile chiunque assuma ruoli di governo locale o nazionale. 

Il tema sollevato dalla lettera di Carrón ha tuttavia, a mio modo di vedere, implicazioni più profonde che riguardano i criteri ispiratori che debbono guidare la condotta pratica di chi, dichiarando pubblicamente la propria appartenenza ideale, si trova ad esercitare un potere le cui modalità e le cui conseguenze non sono limitabili alla sua sfera personale. Proprio per la rilevanza del tema che coinvolge il punto decisivo della coerenza tra le parole e le azioni, non penso che la vicenda del governatore della Lombardia possa ridursi al tema di una pecorella smarrita verso la quale si può anche suscitare una comprensione amorevole. La posta in gioco della questione sollevata da Carrón abbraccia due aspetti che si intrecciano profondamente: 1. Cosa dovrebbe caratterizzare l’azione politica di un uomo che assume la propria identità religiosa come un connotato costitutivo della sua personalità pubblica? 2. Come si misura l’esercizio del potere degli uomini politici che militano in organizzazioni caratterizzate da una visione ideale e non strumentale del potere?

Sulla prima questione sono molto netto: è vero che bisogna distinguere l’ispirazione e la pratica di un movimento religioso, ma è altrettanto indiscutibile che a chi fa una professione pubblica di fede si deve poter chiedere un rigore inflessibile nell’esercizio del potere che si trova ad esercitare. Si possono fare tutte le distinzioni che si vogliono ma il governatore della Lombardia è rispetto all’opinione pubblica un membro importante di Comunione e Liberazione che svolge la funzione politica di governo anche in virtù della percezione che il pubblico ha avuto della sua persona come uomo di fede e disinteressato alle conquiste personali. Se questa confusione tra ruolo politico e statuto personale di uomo di fede è alla base di sospetti e insinuazioni vuol dire che c’è qualcosa di più profondo che riguarda il rapporto tra la fede e il potere pubblico. Io personalmente ho grande simpatia per il movimento di Comunione e Liberazione per la testimonianza di fraternità che ho potuto riscontrare in vari incontri in tante città e Paesi, ma sono convinto che per far prevalere la missione spirituale di cui parla giustamente Carrón è necessaria una “riforma pratica” che non riguardi soltanto una persona determinata come Formigoni, ma l’intero sistema del rapporto fra chi si professa cristiano e la partecipazione alla vita politica nazionale.

In questi anni ho sofferto molto per un equivoco che ha attraversato la mia coscienza, creandomi non pochi turbamenti: Formigoni non è stato soltanto il governatore della Lombardia ma uno dei massimi sostenitori di Berlusconi, sino al punto da ingenerare l’equivoco che il movimento di Comunione e Liberazione fosse schierato col governo di centro-destra. Personalmente ho sentito il peso di questa opzione politica come un impaccio rispetto alla mia domanda di credere in una trascendenza extramondana. Non credo che per un cristiano militante la politica sia un terreno indifferente, affidato alle scelte personali di ciascuno. Penso invece che l’orientamento a costruire il proprio progetto di vita in relazione all’evento epocale della nascita di Cristo non possa poi precipitare in una visione strumentale ad una forza politica determinata solo perché questo assicura vantaggi nell’ambito della propria cerchia di riferimento. Il cristiano, secondo la mia concezione, è allo stesso tempo impolitico e iperpolitico, perché per lui ciò che conta è la visione del mondo che si radica in una società e direi in termini più generali il progetto educativo che tiene insieme regioni e gruppi sociali che si riconoscono in un’identità culturale. Il campo di intervento di un cristiano rispetto alla politica non può essere certamente l’Aventino, ma non può essere neppure la militanza in una formazione politica che si presenta sulla scena come espressione di interessi e poteri particolari. 

Comunione e Liberazione ha una configurazione assolutamente originale: è un movimento di comunità e uno stimolo a ricreare forme più ricche di convivenza fra i gruppi che compongono la società, ma non è trasformabile in strumento operativo per l’occupazione di poteri che hanno proprie logiche e proprie regole di condotta.

Io non so a quale livello intervenire ma bisognerebbe evitare che un uomo di Comunione e Liberazione diventi il governatore di una Regione, sbilanciando l’immagine pubblica del movimento ecclesiale sul successo della sua azione di ampliamento di potere. Certo non si può immaginare che un superiore gerarchico possa richiamare il governatore di una Regione per suggerire linee di comportamento pratiche nell’ambito dei rapporti interpersonali. Tra il capo di un movimento religioso e i suoi seguaci non può istituirsi una gerarchia normativa, ma certamente bisogna trovare modalità in cui il comportamento individuale possa essere valutato e controllato nell’ambito della stessa comunità di credenti.

Nella mia esperienza politica ho vissuto con grande spirito di obbedienza le direttive che venivano dalla direzione del mio partito e ho accettato di ricoprire incarichi pubblici solo a condizione di essere confortato dalla discussione pubblica del mio operato nelle sedi competenti (comitato federale, comitato centrale, ecc.). Ovviamente non penso che si possa istituire una sorta di parallelo tra organizzazioni politiche anche idealmente motivate e movimenti religiosi. La missione di un movimento religioso trascende l’effimero accadere degli eventi politici congiunturali. Ma c’è un aspetto del credente che proprio per questo trascende ogni suo eventuale ruolo politico: egli è il testimone che nella catena vivente dei credenti ha la specifica missione di mostrare come sia possibile mortificare le proprie ambizioni narcisistiche di potere a vantaggio di una visione che cerca di parlare con tutti i propri contemporanei. L’appartenenza al movimento cristiano non può prescindere da una testimonianza pratica che manifesta l’autonomia di ciascun credente dalle forme superficiali e contingenti del consenso politico. Il cristiano ha un onere in più rispetto a qualsiasi altro cittadino: deve incarnare una testimonianza della Verità così come è stata offerta dalla vita storica di Gesù Cristo. 

Il problema sollevato dalla lettera di Carrón è dunque enorme, perché investe la stessa questione del significato della presenza della Chiesa nel mondo contemporaneo. Se la presenza della Chiesa si riducesse sul terreno politico alla trattativa più o meno esplicita sulle questione della bioetica o sul finanziamento delle scuole private, noi non ci troveremmo di fronte ad una Chiesa universale ma di fronte ad una lobby che tratta la propria incidenza sulla vita reale con i poteri di questo mondo. La frase di Gesù “date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio” è un programma di presenza nel mondo che ha, specialmente oggi, una terribile attualità. La Chiesa può condannare e combattere le forme dell’autoritarismo e totalitarismo politico, può denunciare l’ingiustizia del mondo, ma non può aprire canali particolari e segreti per trattare alcune questioni pratiche che hanno implicazioni etiche. Nell’arena politica mondiale e nazionale ciò che non ha più rappresentanza né diritto di parola è la condizione dell’uomo storico con il suo enorme carico di problemi esistenziali. La Chiesa dovrebbe essere la rappresentanza dell’umano che oggi è sotto scacco di fronte ai nuovi domini della tecnica e della scienza. Per questa ragione penso che la lettera di Carrón vada rispettata per la sua sincerità e per la sua tensione etica, ma che sul futuro dei rapporti tra religione e politica mondana debba ancora aprirsi un serio dibattito su quello che può essere il peso di milioni e milioni di credenti sul futuro dell’umanità.

Nonostante la formula sia spesso criticata, il mondo ha bisogno della testimonianza pratica di una diversità morale che sfugge alle logiche scambiste e compensative dei rapporti tra istituzioni e poteri. La presenza del cristiano nel mondo deve rappresentare sempre più la dimensione dell’irriducibilità della trascendenza, e anche di ogni altra idealità, all’orizzonte puramente umano del susseguirsi dei fatti e degli eventi. Il cristianesimo è una visione del mondo che abbraccia tutti gli aspetti della condizione umana e, proprio per questo, la missione specifica del cristiano è aprirsi al confronto con le altre culture e non già a una tattica politica che misuri l’influenza della Chiesa sulle scelte legislative. In quest’epoca c’è bisogno di testimoni  e non di abili imprenditori del proprio successo personale.