Ernesto Galli della Loggia, al pari di molti analisti politici, non riconosce specificità di sorta al fatto cristiano ma lo riduce alle categorie del politico. Una tale operazione non manca di risultati. È possibile scrivere una storia della Chiesa dove questa risulti essere in primo luogo, quindi essenzialmente, un’istituzione alla ricerca di spazi di egemonia. Lo stesso accade per molte delle realtà che la caratterizzano e che non siano movimenti di pura edificazione interiore. L’analisi che fa del movimento di Comunione e Liberazione è in qualche modo rivelatrice di questo schema di pensiero.
Comunione e Liberazione è un’esperienza del cattolicesimo italiano che, maturata all’interno di una delle regioni a forte tradizione cattolico sociale, ha operato fin dall’inizio – metà degli anni cinquanta –partendo dalla constatazione di una secolarizzazione già chiaramente presente, dove il cattolicesimo era già ridotto a morale ed a comportamenti, quando non addirittura a semplici stili estetici. In risposta a questo don Luigi Giussani concepì l’idea di una catechesi radicale che dovesse recuperare le domande fondamentali di verità, giustizia e bellezza presenti nel cuore dell’uomo; domande che lui definisce come espressione del “senso religioso”. Per lui si trattava di ritornare al centro dell’evento fondativo del cristianesimo, l’incarnazione, per arrivare ad indicare in Gesù Cristo (evocazione che nel linguaggio secolarizzato è già in odore di fondamentalismo) la risposta alle domande poste dal senso religioso in quanto tale.
In conseguenza di questo don Giussani ha cercato in tutti i modi di dire che: a) l’evento dell’Incarnazione – per lui e per la Chiesa un fatto storico – ha molto a che fare con il nostro desiderio di verità, giustizia e bellezza; b) nella misura in cui quest’ultimo desiderio, fondamentalmente umano, ci accompagna nella vita reale (fosse anche solo come desiderio-limite) la presenza effettiva della risposta cristiana deve essere quotidianamente intercettabile e sperimentabile.
Possono esistere segmenti della vita reale in cui questo desiderio non agisce? Per essere espliciti: può esistere un agire nell’economia, in politica, nella cultura che sia totalmente separato da un tale desiderio? Nella sostanza no. Infatti se, sul piano effettivo, ciascuno di questi ambiti della società scorre secondo regole proprie ed è, in questo senso, inevitabilmente laico, in realtà i desideri di verità e di giustizia ne sono alla base e sono il motore di tutto. Questi desideri pongono chiunque dinanzi ad una scelta: o sono declinabili in maniera laica, e sono quindi una pura proiezione umana, oppure sono visti come segno inequivocabile di una verità su se stessi che non si possiede ma rinvia verso un altrove, verso una fonte che è esterna all’uomo stesso e che sostanzialmente coincide con Dio. Per don Giussani, ovviamente, è quest’ultima l’opzione di ogni cattolico che non riduca il cattolicesimo a semplice morale.
Non esiste nella visione di don Giussani nessun progetto di egemonia: una politica, un’economia e una morale che traducano questo “desiderio” in progetti egemonici, inaugurando la societas christiana non sono che utopie. Si tratta invece di operare nell’economia, nella politica e nella cultura coscienti non solo del desiderio “alto” che c’è dietro, ma soprattutto di quanto un tale desiderio non sia altro che il “senso religioso” in quanto tale; senso del quale un uomo (Gesù Cristo) si è proclamato come “risposta” e quindi si pone al centro di ogni lavorio, di ogni impegno, di ogni militanza. La scelta quindi – come spiega Julián Carrón – non è quella tra separatezza ed egemonismo, ma tra separatezza e testimonianza.
Ovviamente ogni testimonianza non va da sé: presuppone una fede che, per non essere pura emozione, deve fondarsi su di un incontro concreto. Per don Giussani quest’incontro avviene con la Chiesa, che è la comunità di quanti sono testimoni dell’incarnazione e la vivono consapevolmente. Ed è per questo che Cl ha un’intensa vita spirituale, perfettamente intercettabile e comprensibile per chiunque. Una vita che molti osservatori e analisti della politica si ostinano a non prendere minimamente in considerazione.
Galli della Loggia infatti, ritenendo l’intera dimensione spirituale del tutto secondaria alle categorie del politico, insiste a non vederla. Per lui non esiste, né può esistere, una presenza politicamente, economicamente e culturalmente visibile che, proprio in conseguenza dell’anima religiosa che ne è alla base, non si traduca nei codici dell’egemonia e quindi del controllo del consenso, con conseguente distribuzione di uffici, cariche, provvidenze, e magari provvigioni. Da qui la scelta chiara: o si sta fuori da tutto questo, salvando l’anima, o si sta dentro e si rischia di perderla.
In realtà, per quanto la politica, e soprattutto il potere che si arriva a detenere grazie a questa, possano essere fonte di secolarizzazione dello spirito religioso iniziale, la scommessa di riconoscere la dimensione religiosa come motore e riferimento in ogni ambito di vita sociale, resta ineludibile.
Ci sono e ci saranno cadute. Stare nel mondo, conseguire successo arrivando ad occupare spazi di potere, è fonte di tentazione, porta vertigini, può invadere fino a produrre un mondo a sé stante, un universo autoreferenziale che perverte l’intento originario. Ma anche restarne fuori, coltivando la propria incontestabile purezza e lasciando agli altri le fatiche del governo e i rischi del potere, può essere una tentazione non meno devastante e, in una società secolarizzata come la nostra, diventare la forma di una formidabile autoesclusione.