Che cosa ci fa conoscere la bellezza? La domanda può essere intesa in due modi diversi ma complementari: essa si riferisce in primo luogo a quelle condizioni dell’esperienza che ci permettono di giudicare qualcosa come “bella”, e più in generale ci fanno conoscere la realtà della bellezza. Ma in secondo luogo quella domanda si riferisce a ciò che la bellezza stessa ci permette di conoscere, o meglio quella specifica conoscenza della realtà – di noi stessi e del mondo – che acquisiamo grazie alla bellezza.



Tutto il problema della bellezza nella nostra epoca può essere sintetizzato nel fatto che i due sensi di questa domanda sembrano essere ormai definitivamente divaricati l’uno rispetto all’altro. Di modo che nell’esperienza soggettiva del bello (in quello che da Kant in poi chiamiamo il “gusto” del bello) si indebolisce, fino a perdersi, ogni pretesa di conoscenza; e a sua volta la conoscenza “oggettiva” delle cose si identifica progressivamente con la loro misurabilità e la loro costruibilità. Per questo vale la pena riaprire una questione che sembrerebbe essere già stata risolta e archiviata, vale a dire: qual è la dimensione conoscitiva del bello? Ci permette esso di allargare la nostra conoscenza del mondo e di noi stessi o dev’essere confinata all’interno di un sentimento soggettivo?



La risposta più diffusa a tale questione nell’epoca contemporanea è che la bellezza è segnata da una radicale impossibilità conoscitiva. E questo avviene proprio nel momento in cui si afferma definitivamente una tendenza tipica del pensiero moderno, secondo la quale il bello non può più essere pensato come una caratteristica dell’essere (quindi in rapporto con la verità), bensì come una rappresentazione tutta interna al soggetto umano. Questa rappresentazione sta alla base dell’“estetica”.

È significativo che l’inventore di questa disciplina, Alexander G. Baumgarten, nel 1750 scrivesse che «la bellezza della conoscenza» è «un effetto prodotto da colui che pensa in modo bello, né più grande né più nobile delle forze vive di cui quest’ultimo dispone». Un principio che Kant riprenderà nella Critica del giudizio (1790), determinando il canone di tutta l’estetica successiva: «Per distinguere se una cosa è bella o no, noi non riferiamo la rappresentazione all’oggetto mediante l’intelletto, in vista della conoscenza; ma, mediante l’immaginazione (forse congiunta con l’intelletto), la riferiamo al soggetto, e al suo sentimento di piacere o dispiacere. Il giudizio di gusto non è dunque un giudizio di conoscenza, cioè logico, ma è estetico; il che significa che il suo principio di determinazione non può essere se non soggettivo», sebbene non in senso arbitrario o relativistico, ma universale.



La controprova di questo sta nel fatto che per Kant quando affermiamo che qualcosa è bello non ci interessa affatto l’esistenza dell’oggetto che giudichiamo bello, ma solo il sentimento di piacere prodotto in noi dal gioco armonico tra le facoltà della nostra mente (sensibilità, immaginazione, intelletto). Nell’esperienza della bellezza non è la ragione che si apre ad accogliere l’attrattiva dell’essere o il fascino del mondo (questo per Kant sarebbe solo “piacevole”, non “bello”); piuttosto è il piacere dell’oggetto che viene prodotto a priori da un giudizio universale della ragione.

Resta, è vero, in Kant e soprattutto nella cultura romantica, un rapporto privilegiato del bello con il bene (pensiamo all’enfasi posta da Friedrich Schiller sull’estetica come educazione alla libertà), ma anche in questo caso il bene cui la bellezza conduce costituisce un puro ideale, un dover-essere che per sua natura eccede il piano dell’esistente, e anzi trova tutta la sua forza e la sua suggestione nel prospettare  – con l’immaginazione e la fantasia – ciò che la ragione non sarebbe mai capace di cogliere con i concetti.

La “possibilità” estetica della bellezza viene sempre più a coincidere con la sua “impossibilità” reale o oggettiva. Non a caso Hegel (nelle sue Lezioni di estetica), proprio nel momento in cui afferma che la bellezza artistica supera di gran lunga quella naturale, poiché è una «bellezza generata e rigenerata dallo spirito», sostiene che l’arte stessa è destinata alla “morte” perché il suo contenuto spirituale deborderà sempre di più dagli schemi della sua rappresentazione sensibile.

Nello spazio aperto da questa morte o impossibilità, è stato Theodor W. Adorno, nella sua Teoria estetica (1970), a rendere nella maniera più chiara e direi più struggente la separazione inevitabile dell’esperienza estetica dalla realtà esistente di fatto. Quest’ultima è sempre “schiacciata” sotto il peso della sua identità, cioè essa “è quello che è” e non può che essere così. L’“estetico” invece costituisce un’antitesi rispetto all’esistente, una presa di distanza rispetto al principio di realtà. In ogni vera opera d’arte diviene così possibile un non-esistente, una realtà non-effettiva, come una promessa che, di fatto, non si potrà mai compiere. In tal modo l’arte, nel suo apparire di bellezza e di forma, promette e insieme tradisce, e l’apparenza stessa non vale più come traccia di un possibile, ma come consapevole illusione o mero inganno, appunto perché ciò a cui ci rimanda è impossibile.

Certo, nell’estetica novecentesca possiamo rintracciare anche dei tentativi di ridare uno spessore “ontologico” o di “verità” all’esperienza del bello, come ad esempio nell’ermeneutica di Hans-Georg Gadamer. Ma proprio parlando della verità estetica, egli conferma clamorosamente che la bellezza non ci fa conoscere niente della realtà stessa; o meglio: ci fa conoscere la realtà solo in quanto essa è una produzione culturale all’interno di un canone linguistico condiviso da un’umanità storica (cfr. L’attualità del bello, 1977). Il bello non è solo qualcosa che, evidentemente, si offre alla nostra interpretazione, ma è qualcosa il cui essere consiste appunto nell’essere-interpretato, e cioè in definitiva nell’essere un prodotto ermeneutico.

Se Gadamer ha dato voce alla tradizione continentale, Nelson Goodman ha invece espresso in maniera paradigmatica l’approccio al problema dal punto di vista della tradizione analitica americana. Egli afferma con decisione che l’arte, e quindi la percezione estetica, possiede senz’altro un valore conoscitivo, o meglio essa è un’«attività cognitiva» al pari della scienza, ma proprio perché da parte sua la conoscenza – estetica o scientifica che sia – considera la realtà come un prodotto del linguaggio o meglio, dei diversi sistemi simbolici con cui percepiamo, e quindi “facciamo” il mondo (worldview come worldmaking). Per questo Goodman afferma: «Che la natura imiti l’arte [come avrebbero detto Hegel e Gadamer] è una massima troppo prudente. La natura è un prodotto dell’arte e del discorso» (I linguaggi dell’arte, 1976).

Di fronte a questa ambigua condizione della bellezza, divisa tra un’impossibilità a “realizzarsi” (cioè ad essere “reale”) e una realizzazione prodotta dalle possibilità storico-linguistiche dell’interpretazione, nasce l’idea che forse essa ha bisogno di essere “liberata” paradossalmente da questa sua condizione di ostaggio dell’estetica, per poter tornare a mostrarsi e a parlarci nella sua propria lingua. Forse varrebbe la pena ipotizzare che la bellezza non debba essere compresa innanzitutto a partire dal “gusto” soggettivo o dalla creazione spirituale o dalla interpretazione culturale, bensì a partire dalla stessa percezione che noi abbiamo della realtà.

C’è una testimonianza che ha segnato – tra le altre – in maniera per me decisiva la storia di questo problema. È quella offertaci da Agostino d’Ippona nel X libro delle sue Confessioni (397-400), lì dove egli descrive il modo in cui il nostro «io interiore» (ego interior) giunge a conoscere il significato ultimo della realtà con l’aiuto del nostro «io esteriore» (per exterioris ministerium), o più precisamente, il modo in cui il mio “animo” conosce il dono dell’essere per mezzo dei sensi del corpo (Conf. X, 6.9). Ma il contesto di questa descrizione è particolarmente significativo: Agostino vuol sapere chi è il suo Dio, vale a dire dove può localizzare quel significato che si è rivelato a lui come una presenza amorosa attraverso gli incontri, gli avvenimenti, i drammi stessi della sua vita. E comincia con l’interrogare le cose fuori di lui: il cielo, la terra, il mare e tutto ciò che incontra nell’universo.

Con le mie domande – scrive Agostino – porto il mio sguardo sulle cose (interrogatio mea, intentio mea), e le cose da parte loro mi rispondono attraverso la loro forma di bellezza (et responsio eorum, species eorum: Conf. X, 6.9). E tutte – proprio in quanto appaiono come belle – gli rispondono: non siamo noi quello che cerchi, «non siamo noi il tuo Dio», perché siamo state fatte.

Il problema che si pone a questo punto è: come ci parla la bellezza delle cose? E perché la risposta che essa dà alla nostra interrogazione non è intesa da tutti? Infatti, se da un lato la bellezza appare a tutti gli esseri dotati di sensi, dall’altro lato essa non parla a tutti nella stessa maniera. Gli animali per esempio la vedono, sì, ma non la capiscono, poiché essi «sono incapaci di fare domande», e non possiedono quella «ragione giudicante» (iudex ratio) che serve a decifrare e valutare i messaggi che arrivano dai sensi. Gli uomini, invece, proprio in quanto «sono capaci di fare domande» (interrogare possunt), possono scorgere il Dio invisibile attraverso il creato visibile (Conf. X, 6.10).

Le cose dunque «rispondono soltanto a chi le interroga sapendo giudicare»; la loro voce, cioè la loro bellezza non cambia, ma si presenta in modo diverso a chi la vede soltanto e a chi invece la vede e insieme l’interroga. Così, «pur presentandosi a entrambi sotto il medesimo aspetto, essa per l’uno è muta, per l’altro parla; o meglio, parla a tutti, ma solo coloro che confrontano questa voce ricevuta dall’esterno, con la verità nel loro interno, la capiscono» (sed illi intellegunt, qui eius vocem acceptam foris intus cum veritate conferunt). 

La bellezza è percepita veramente in un’esperienza di dialogo e di corrispondenza tra l’io e la realtà, tra l’interno e l’esterno, tra ciò che è percepito sensibilmente e il suo senso percepito razionalmente. Nell’invito che la bellezza rivolge al nostro io, grazie alla voce che ci chiama attraverso il fascino della forma (species), l’io è letteralmente “mosso” ad essere se stesso. Esso esisteva, certo, come possibilità di esercitare una funzione percettiva, ma ora, ascoltando quell’invito e chiedendo il “perché” di quella voce, il nostro io è “preso” o “afferrato” dalla realtà: e così esso può emergere, può venir fuori nella sua piena soggettività.

Per Agostino la bellezza delle cose non si identifica con il mero aspetto estetico, ma con l’ordine, l’armonia e la ragione profonda per cui esse esistono. Per questo, proprio in quanto giudicata “bella”, la realtà si manifesta nel suo significato; e viceversa il significato vero delle cose o si manifesta attraverso la sua bellezza oppure non è.  

La bellezza denota così la scoperta dell’invisibile attraverso il visibile, ma non come un’aggiunta o un mero “al di là” rispetto a quello che vediamo sensibilmente, bensì come la condizione stessa della possibilità del visibile. Noi vediamo sensibilmente le cose attorno a noi, ma non ne vediamo alla stessa maniera il senso. Eppure, se non percepissimo il senso di quelle cose probabilmente non le vedremmo neanche, o meglio, le “guarderemmo”, sì, senza però “vederle” realmente.

L’articolo presentato è uno stralcio della relazione dal titolo “Che cosa ci fa conoscere la bellezza”, che l’autore ha tenuto durante il Convegno internazionale sul tema “Il destino della bellezza – La bellezza nella prospettiva delle scienze umanistiche” organizzato dal 17 al 19 aprile 2012 a Mosca dall’Università San Tichon insieme all’Università Cattolica di Milano, con la collaborazione dell’Istituto Italiano di Cultura di Mosca.