Oggi Benedetto XVI arriverà a Milano per il VII incontro mondiale delle famiglie. Il cardinale Scola ha esortato a «riproporre la bellezza, la bontà e la verità della famiglia fondata sul matrimonio tra uomo e donna», facendo tuttavia presente che se «una nuova fase comincia dal porsi del soggetto», «è inevitabile che in una società plurale come la nostra, questo porsi debba passare dall’opporsi». Come dire: se nella pretesa di autonomia dell’individuo che ha segnato gli ultimi cinquant’anni qualcosa non ha funzionato, allora bisogna dirlo.



«Il mito dell’autorealizzazione egoistica e della libertà sessuale ha ingannato tanti uomini e tante donne», dice a Ilsussidiario.net Lucetta Scaraffia.

La famiglia è in crisi?

Penso che la famiglia si sia disgregata non tanto a motivo di sollecitazioni contrarie, che pure non sono mancate, quanto piuttosto per un cambiamento culturale, profondo e di lunga durata, che ha esaltato l’individuo e la sua realizzazione intesa come soddisfazione di tutti i suoi desideri individuali. La famiglia, all’opposto, è una comunità di persone che scelgono di mortificare alcuni desideri individuali per far vivere la famiglia come tale, stimando che la soddisfazione che essa può dare è più grande.



Secondo lei il progetto di una felicità individuale da ricercare al di fuori di una relazione stabile, può dirsi culturalmente riuscito?

No, al contrario. Tanti giovani, che hanno visto nella felicità individuale un fine da realizzare attraverso la libertà sessuale, sono rimasti delusi. Si sono accorti che la strada non è quella, al tempo stesso nessuno sta facendo loro capire i motivi di quel fallimento. La Chiesa, che continua a proporre la famiglia come vocazione autenticamente umana, fa oggi l’unica vera opera di educazione.

Torniamo alla deriva culturale che ha denunciato. Chi in famiglia ne accusa di più le conseguenze: il padre, la madre, i figli?



Quando una cultura è malata, colpisce tutti in modo diverso. Se proprio vogliamo dire chi in questo momento sta soffrendo di più, direi che sono le giovani donne. Vivono in un clima in cui hanno tutta la libertà sessuale possibile, spingono per affermarsi nel lavoro, ma non hanno la possibilità di fare una famiglia e avere dei figli. Vedono gli anni passare e sanno che il loro tempo sta scadendo.

Non si può certo dire che il mondo del lavoro oggi favorisca l’aspirazione delle donne a trovare stabilità.

È vero, ma la prima ragione di disagio non è economica, per esempio i costi degli asili nido o la precarietà lavorativa, come spesso si dice in modo in parte fondato; è più profonda, e sta nel fatto che gli uomini della loro età non hanno alcuna intenzione di fare famiglia. Non intendono assumersi una responsabilità così pesante e intendono anch’essi approfittare di tutta la libertà sessuale di cui dispongono.

Il cardinale Scola ha scritto che nella famiglia «il bambino, chiamato per nome, impara a dire “io”». Ma l’io è proprio uno dei tratti salienti della modernità culturale. La famiglia tradizionale che la Chiesa difende educa ad un «io» alternativo?

La famiglia ci insegna chi siamo nei rapporti d’amore primari. Impariamo chi siamo guardando negli occhi delle persone che ci vedono e che vivono con noi. È all’interno di tali rapporti che avviene la costruzione e la formazione della nostra personalità. Il problema è come viene vissuto questo io: se in relazione rispettosa, generosa e amorosa verso di sé e verso gli altri, o se invece come onnipotente e solo desiderante.

C’è differenza tra la battaglia culturale contro la famiglia tipica degli anni settanta in Italia, e quella degli anni successivi?

La differenza c’è ed è molto forte, anche se non bisogna generalizzare: pensiamo, per esempio, all’importante riforma del diritto di famiglia del 1975. In ogni caso, il vero fattore rivoluzionario di quegli anni può essere riassunto nel loro simbolo, che fu la pillola e il mito, ad essa legato, del controllo delle nascite. Non innanzitutto, si badi, come momento di egoistica conservazione della propria autonomia, ma come possibilità di procreare figli migliori. Più «voluti», e quindi più amati. Gli anni successivi hanno smentito questo miraggio ideologico, perché hanno dimostrato che spesso il figlio desiderato ha più problemi proprio per essere stato voluto a tutti costi.

E dopo cos’è accaduto?

Nel periodo che va dagli anni 90 fino ai giorni nostri l’attacco alla famiglia è venuto dalla moltiplicazione dei diritti, da cui la richiesta di diritti, appunto, per le «nuove» famiglie. Ma la famiglia è una, le altre sono unioni di tipo diverso che possono essere rispettate ma che famiglia non sono.

Anche la famiglia è al centro del fenomeno che Jacques Ellul ha chiamato «slittamento morale»?

Sì. In questi anni lo slittamento morale − il fatto che nuove realtà vengono man mano accettate per il solo fatto di esistere, dalle separazioni ai divorzi fino alle coppie omosessuali −, avviene su tutti i piani, senza eccezione. Questo fenomeno modifica il senso comune e apre nuove possibilità: negli anni 70 i divorzisti dicevano che con la nuova legge i divorzi sarebbero diminuiti, invece si è verificato l’esatto opposto. È solo uno dei molti esempi che si possono fare.

Negli anni 70 non c’era la possibilità di modificare come oggi il dato di natura, pensiamo alle biotecnologie.

C’era la pillola, il primo vero intervento che ha modificato l’ordine naturale della procreazione. Se non ci fosse stata la pillola, non ci sarebbe stata poi la legalizzazione dell’aborto.

E ciò che si può fare con la tecnica è destinato a cambiare anche l’attuale senso comune?

 

Lo sta già cambiando e di molto. Si sta diffondendo un’eugenetica che non viene chiamata per nome ma che di fatto lo è, trovando espressione, per esempio, nella possibilità di sapere prima se un figlio sarà handicappato o no e, nel caso, di eliminarlo. Come se fosse meglio per lui non vivere.

La politica ha qualche responsabilità nella trasformazione della famiglia che si è avuta in Italia nell’ultimo mezzo secolo?

Le leggi del divorzio e dell’aborto hanno cambiato completamente il modo di vivere la famiglia. Quelle leggi sono arrivate prima o poi in quasi tutti i Paesi europei. Da storica posso dire che era quasi impossibile che in Italia non si facessero; non si può negare poi che nel nostro Paese lo Stato non ha mai fatto una politica di vero appoggio della famiglia. Da noi è la famiglia che appoggia lo Stato, non viceversa.

Secondo lei un credente dovrebbe ipotizzare di poter tornare indietro, abrogando quelle leggi?

Il punto è un altro. Penso che il primo compito sia quello di riflettere sulla fine del mito dell’autorealizzazione individuale, cogliendo la vera portata di questa crisi, per prepararne, innanzitutto sul piano culturale, il superamento. Prima della rivoluzione sessuale la famiglia era una realtà «normale», connaturata al sentire comune e come tale non discussa. Tornare alla famiglia dopo la crisi e con una coscienza nuova del valore, sarebbe qualcosa di grandemente positivo.

Cosa si attende da questo VII incontro mondiale delle famiglie?

La famiglia in questi anni è stata trattata come un moribondo, mentre il futuro sembrava stare nelle unioni omosessuali. Mi auguro che questo incontro, cadendo in un periodo di crisi che non è solo economica ma coinvolge tutta la cultura e la società, segni un cambiamento di rotta.

 

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