È veramente paradossale che nei nostri tempi si debba sviluppare un movimento per la difesa della vita, sollecitato e sostenuto dalla Chiesa cattolica, in opposizione alle culture laiche che tendono a sottrarre i problemi della vita e della morte ad ogni valutazione etico-sociale. Da che l’uomo ha preso coscienza di sé e della propria mortalità, la vita umana è diventata oggetto di pensiero e riflessione. Come ha scritto Maria Zambrano, la vita umana è “la vita che si sa”. Il sapere della vita è anzitutto l’interrogazione sul senso del venire al mondo e sulla destinazione verso la quale si dirige il nostro vivere quotidiano, il nostro abitare il pianeta. 



Da quando questa interrogazione si è posta all’interno delle comunità umane, la vita è diventata il più grande enigma di fronte al quale l’uomo si è trovato. Non a caso nella cultura greca era tragicamente presente la domanda del perché nascere se poi si deve soffrire e morire, e Giacomo Leopardi, in piena espansione della modernità, si chiedeva nel Canto notturno di un  pastore errante dell’Asia: “se la vita è sventura, perché da noi si dura? Ma perché dare al sole, perché reggere in vita chi poi di quella consolar convenga?”. Fino al secolo scorso il significato della vita non era un “problema privato” sul quale ciascuno poteva esercitare la sua assoluta libertà di decisione. 



La rappresentazione di ciò che la vita significa per l’essere umano come gioia e dolore, come godimento e sofferenza è stata, almeno nella storia dell’Occidente, il tema di tutte le più grandi manifestazioni del pensiero umano e della sua creatività, dalla filosofia all’arte. È chiaro che il significato della vita, proprio per queste ragioni, non è evidente agli esseri umani e non può considerarsi neppure desumibile dal puro istinto di sopravvivenza che contraddistingue tutti gli altri esseri viventi. Vivere per gli esseri umani non è sopravvivere, e tutto ciò che ci caratterizza sotto ogni profilo pone la domanda del senso oltre il puro orizzonte biologico della sopravvivenza. 



È un’assoluta rottura con questa tradizione l’idea contemporanea secondo cui tutto ciò che riguarda la vita e la morte individuale sia una questione privata di cui ciascuno può disporre in assoluta libertà. Anche la stessa libertà di decidere appartiene infatti al dato indiscutibile che la vicenda umana è oltre il livello puramente biologico della necessità evolutiva. Se l’uomo si interroga sul senso della vita è perché questa domanda lo radica in uno statuto antropologico, storico-sociale, che ne definisce l’assoluta originalità nel mondo vivente.

Accanto alla trasmissione puramente genetica di caratteri che attengono alla nostra costituzione corporea si è infatti realizzata nel corso dei secoli una costruzione sociale dell’identità umana che, attraverso la mediazione dei rapporti fra i genitori e i figli, ha rappresentato il vero filo rosso che ci mette anche oggi di fronte al mondo nella condizione di porre domande a noi stessi e agli altri. L’introduzione di un piccolo d’uomo in una comunità immette nella vita di ciascuno una stratificazione di linguaggi e di rappresentazioni mentali che costituiscono il patrimonio vivente di ogni gruppo sociale. Non c’è bisogno di ricorrere al diritto naturale né ai precetti religiosi per giungere alla conclusione che tutte le scelte relative alla nascita e alla morte non possono essere affidate unicamente al libero arbitrio di ciascun individuo, uomo o donna che sia. C’è una oggettività storico-sociale nella quale siamo immersi sin dal nostro venire al mondo che impone di confrontare i nostri desideri con la visione collettiva depositata nella tradizione culturale e di misurare la nostra libertà con i limiti che derivano dal nostro essere individualità determinate e mortali. 

Non è soltanto la natura come mondo che ci sta di fronte ad imporci di limitare il nostro immediato desiderio di sfruttamento e di godimento, non è soltanto la necessità di fare i conti con una realtà che ci sovrasta e della quale non possiamo avere per principio il dominio assoluto, non è neppure un dio trascendente che ha dettato le sue prescrizioni alle sue creature, ma il progressivo strutturarsi nei secoli di uno statuto antropologico, storico-sociale, di cui ciascun essere umano è in qualche modo artefice e responsabile. Abbiamo cioè una responsabilità collettiva verso la natura come vivente non umano con il quale coabitiamo la terra, e abbiamo anche la responsabilità verso la conservazione del patrimonio di culture, conoscenze e principi che abbiamo strutturato come senso comune nella nostra storia millenaria. 

Il fatto che oggi, in nome di un’assoluta libertà individuale, si proclami il diritto ad avere un figlio al di fuori del processo storico-naturale che sinora ha contraddistinto l’evento della nascita, o il diritto di disporre della fine della propria vita come qualcosa di assolutamente privato, non riguarda soltanto la violazione di leggi naturali o divine, ma significa la distruzione e l’annichilimento del nostro stesso statuto antropologico. Solo se noi fossimo pure aggregazioni molecolari, costruite in modo da funzionare solipsisticamente, e cioè senza alcun legame con il mondo esterno, si potrebbe concepire una tale libertà senza limiti che non siano puramente individuali. Per valutare allora ciò che oggi significa pretendere una legislazione liberale che lasci scegliere a ciascuna donna o a ciascun uomo il modo di avere un figlio e così pure di decidere se chiudere la propria vita con un atto di autosoppressione volontaria, bisogna cercare di approfondire sul piano storico-sociale che cosa significa ancora oggi venire al mondo o morire per propria decisione.

In un inserto di Repubblica di qualche tempo fa si poteva leggere una vera e propria apologia pubblicitaria delle cosiddette fabbriche artificiali di figli che sarebbero vietate solo nel nostro Paese e impedirebbero a molte coppie e a molti singoli di realizzare  il proprio desiderio di maternità o paternità. A parte il fatto che molte donne hanno testimoniato quanto sia doloroso e umanamente penoso il percorso che conduce al successo dell’impiego delle nuove tecniche di procreazione, resta la questione che un intero segmento del processo creativo di un figlio viene totalmente sottratto ad ogni spontaneità psicologica e consegnato ad una logica meccanico-mercantile che trasforma almeno una parte del processo in un colossale business economico. 

Sono mille le considerazioni che si possono fare per portare nel dibattito pubblico la verità oggettiva su ciò che accade in queste vicende di assoluta manipolazione dei processi vitali che conducono alla nascita di un essere umano. Anzitutto l’introduzione surrettizia di una logica eugenetica, cioè di arbitraria selezione di chi ha diritto a nascere, che può condurre ad un immaginario collettivo assolutamente mostruoso: io non voglio avere un bimbo per rispondere all’istanza di continuare la vita sulla terra e di manifestare attraverso la nascita il mio amore e il mio desiderio di donare ad altri ma, al contrario, progetto un essere umano con caratteristiche naturali, dal colore dei capelli alla conformazione fisica del corpo, secondo uno standard astratto di uomo bello e forte che mi viene trasmesso dalla cultura medico-scientifica.

 

La logica di produrre figli secondo procedimenti meccanici di selezione di caratteri e qualità desiderabili, in vista di una capacità di prestazione, è di per sé un’aberrazione che sottrae all’esperienza dell’attesa, della gravidanza e del parto l’intero patrimonio affettivo della lenta abitudine a sentire dentro di sé il corpo di un altro essere vivente a cui dedicare le proprie cure. L’aspetto abnorme di questa procedura di selezione, che può spingersi ad ingravidare una donna di oltre cinquant’anni, è la prova evidente del carattere puramente meccanico-artificiale attribuito alla nascita di un bambino. Non ci vuole molta immaginazione per cogliere la differenza del rapporto affettivo che si istituisce fra una giovane donna che ha voluto per amore mettere al mondo un figlio a cui dedicare la propria vita, e una donna già anziana che potrebbe desiderare soltanto di avere una compagnia per la propria solitudine. 

Tutti gli esperti di psicologia infantile che si sono occupati del problema hanno sempre sottolineato la rilevanza obiettiva dell’influenza indiscutibile che i sentimenti di una donna che porta in grembo un proprio figlio hanno sulle dinamiche psichiche del nascituro. A differenza dei topi delle praterie americane, che secondo gli scienziati accolgono anche i figli di altre femmine per difendere i piccoli dall’assalto dei rapaci che piombano giù dal cielo, gli esseri umani desiderano e vogliono la nascita dei figli all’interno di rapporti amorosi che sono il collante di un intero gruppo sociale e del loro modo di abitare e di vivere. 

È banale rispondere a queste considerazioni che sempre più spesso i figli non nascono dall’accoppiamento con il proprio partner e che fra il caso e la provetta è meglio la provetta. Non si può infatti assumere ciò che accade per lo sfaldamento sentimentale delle coppie come una regola che autorizza la liberalizzazione di ogni modo di stimolare la procreazione. Il problema non è infatti introdurre divieti e sanzioni, ma porsi la responsabilità di proporre alla società in cui viviamo un modello di procreazione conforme al nostro statuto antropologico. 

Proporre alla società l’idea che i figli si possano produrre su commissione e con meccanismi artificiali induce nell’individuo contemporaneo l’illusione di un’onnipotenza sulla natura che, come la nostra società dimostra, produce effetti catastrofici. Si possono capire le spinte individualistico-liberali che caratterizzano un’epoca di neoliberismo selvaggio in cui sono stati sciolti e cancellati tutti i legami sociali e il destino dell’umanità non è più un affare collettivo; ma bisogna per lo meno produrre un dibattito pubblico in cui sia chiara la posta in gioco di tutte le istanze libertarie e dei nuovi diritti che sembrano costellare le nostre giornate. 

Mi limito a chiudere queste considerazioni con questa banale riflessione: è veramente strano che da tante parti della società si invochi la necessità di misure contro la brutale logica dei mercati finanziari di sottrarre alle decisioni individuali tutto ciò che attiene al cosiddetto bene comune, e che si invochino giustamente limiti alla ricchezza in nome della solidarietà e dell’equità redistributiva, e che poi invece si affidi assolutamente all’arbitrio individuale ciò che riguarda la vita e la morte dei membri della comunità nazionale (intesa naturalmente non come organismo ma come insieme di gruppi). Non ci si può battere per una visione solidaristica che tende giustamente a limitare l’arbitrio individuale nell’uso delle risorse naturali e poi si proclami la radicale libertà individuale nei campi della vita e della morte dove si sviluppa e costruisce l’identità culturale dell’intera società.

 

Davvero non riesco a capire come tutti in questo momento proclamano la priorità della questione ecologica, proponendo limiti drastici allo sfruttamento delle risorse naturali, e poi trascurano totalmente la rilevanza dell’ecosistema mentale che non può essere pensato al di fuori di ogni contesto, così come tutti gli studi sull’interazione fra uomo e natura hanno da secoli dimostrato. Non si può essere ecologisti in economia e libertari sulle questioni della nascita e della morte.