All’inizio di una diffusa traduzione in greco moderno del Nuovo Testamento si legge una premessa della Società Biblica in cui si precisa che la traduzione non pretende di sostituire il testo greco originale, ma si propone solo come momento di mediazione per un primo accostamento al testo. Tradurre significherebbe ammettere che l’originale è scritto in una lingua diversa: al massimo ci si può permettere una parafrasi un po’ ammodernata, non una traduzione. Poi, se si fa un raffronto, si nota facilmente che tra i due testi le differenze sono tante. Ma la cautela di questa premessa ha ragioni lontane.
Nel 1918 il Patriarcato della Chiesa ortodossa aveva messo in guardia dal tradurre la Bibbia in lingua volgare, perché l’uso di questa «ci allontanerebbe dalle due fonti della nostra vita nazionale, vale a dire la lingua dei nostri immortali antenati e la lingua del Vangelo e della Chiesa, così da interrompere ogni comunicazione tra noi e le nostre fonti». In questo atteggiamento si colgono alcuni aspetti interessanti per capire la moderna mentalità greca: una orgogliosa rivendicazione del proprio passato e il rifiuto di ammettere che vi sia ormai uno iato profondo fra la Grecia di allora e la Grecia di oggi.
Può essere utile una sommaria panoramica storica, e mi scuseranno i lettori se la necessità della sintesi condurrà talora ad affermazioni perentorie e se farò perno soprattutto sulla storia linguistica.
È innegabile il debito dell’Europa moderna nei confronti della Grecia antica. In questa troviamo l’origine di tanti concetti essenziali della nostra cultura: l’amore per la ricerca, l’amore per la storia come memoria critica del passato, l’amore per la scienza, l’amore per la bellezza, i principi basilari della vita democratica. L’acquisizione di questi concetti si realizzò in maniera per tanti versi singolare. La Grecia antica è un paese piccolo e in sostanza povero, culturalmente frammentato e in perenne stato di conflittualità: ogni località possiede istituzioni, tradizioni, culti e lingua diversi da quelli del vicino, nello stesso tempo vi è una forte coesione e una fiera consapevolezza della propria identità culturale: di fronte alla minaccia nemica si fa fronte comune, e nella lotta tra la piccola Grecia e il potente impero persiano che tenta di invaderla sono i Greci con la loro determinazione a prevalere con vittorie strepitose. Diversamente da quel che si potrebbe credere, la cultura della Grecia antica fu in sostanza chiusa in sé stessa. La Grecia non aspirò mai a rendere altri popoli partecipi delle sue conquiste nell’ambito dell’arte e del pensiero: la costituzione di colonie in zone lontane fu dovuta a necessità economiche e demografiche, e mai si pose il fine di esportare la cultura greca in altre terre.
Un cambiamento essenziale si ebbe nel IV secolo a.C., quando Alessandro Magno conquistò con una rapida avanzata l’impero persiano spingendosi fino ai confini con l’India: la cultura greca divenne la cultura egemone di un territorio enormemente più vasto di quello in cui si era formata. Ma Alessandro era un macedone, uno straniero proveniente da una dinastia regale che, pur non cessando di manifestare la propria simpatia per l’arte e gli ideali della Grecia, parlava una lingua diversa e aveva sottomesso la Grecia con una aggressiva politica di conquista e sopraffazione.
Fu dunque uno straniero a dilatare in maniera straordinaria i confini della Grecità. Con Alessandro inizia l’epoca dell’Ellenismo. Da questo momento la situazione della Grecia cambia: la culla della Grecità viene ora a trovarsi in una posizione periferica, i grandi centri dell’elaborazione artistica e scientifica sono altrove − sono ad Alessandria d’Egitto, sono in Anatolia, sono comunque lontani. L’estendersi del greco favorisce la nascita di una lingua comune, la koiné, che si sovrappone alle vecchie varietà dialettali fino a farle estinguere.
Nel momento in cui i Romani si affacciano alla parte orientale del Mediterraneo, inizia un formidabile processo di integrazione che porta allo svilupparsi di una cultura unitaria (con la sola differenza della lingua: latino a Occidente e greco a Oriente). «La Grecia conquistata conquistò il rozzo vincitore e introdusse la arti nell’agreste Lazio», scrisse il poeta Orazio. I Greci accettano di buon grado questa situazione di subordinazione politica, perché pensano di poter contrapporre all’egemonia romana la loro supremazia intellettuale e ritengono che i Romani abbiano contribuito a diffondere molte delle loro istanze culturali: come scrive un linguista del secolo scorso, Ioannis Psicharis, per i Greci l’impero romano era il braccio armato della Grecità, tanto che, quando l’impero romano si suddivise in due parti e la zona orientale sopravvisse alla caduta dell’impero d’Occidente, essi continuarono a chiamarsi Romei. Ma tre fatti meritano di essere ricordati in particolare.
1. Neppure dopo la caduta dell’impero d’Occidente la Grecia si risollevò dalla sua condizione di emarginazione: la cultura in lingua greca continuò a godere di altissimo prestigio presso popoli anche lontani, ma capitale politica dell’impero d’Oriente fu Bisanzio, e i grandi centri di cultura furono in Egitto, in Anatolia, in Siria: Atene ebbe qualche rilievo con la sua scuola filosofica, che fu comunque chiusa per ordine dell’imperatore Giustiniano.
2. Il mondo bizantino non fu toccato dal travaglio culturale che l’Occidente conobbe: mentre questo visse un rinnovamento artistico e linguistico che, pur non rinnegando il passato, diede vita a sviluppi originali con la nascita delle lingue romanze e di nuove tradizioni letterarie, il mondo bizantino oscillò tra il disinteresse per la cultura classica e l’immobilismo: si continua a usare la koiné ellenistica, e la letteratura, prevalentemente orientata verso una produzione di interesse ecclesiastico, rimase ancorata all’uso di modelli di scrittura e di lingua lontani.
3. Nel momento in cui Occidente e Oriente si allontanano sempre più, complici le divergenze teologiche e l’insofferenza delle Chiese orientali per il primato di Roma, si rinsaldano i legami fra la Grecia e la penisola balcanica: se il periodo dell’impero romano aveva visto intensi influssi reciproci fra lingua greca e latino, ora l’evoluzione del greco ha molti tratti in comune con quelle delle vicine lingue balcaniche (l’albanese, le lingue slave meridionali, il rumeno).
Se l’effimera dominazione degli occidentali (1204-1261) aprì il mondo greco alle nuove forme artistico-letterarie dell’occidente romanzo, la caduta di Costantinopoli (1453) e la dominazione ottomana ebbero conseguenze funeste, portando a una sostanziale eclissi della cultura greca.
All’inizio del secolo XIX le lotte dei Greci per l’indipendenza accesero la fantasia di molti romantici: artisti e intellettuali come Byron, Santorre di Santarosa e altri persero la vita per una causa che, al di là del suo carattere giusto (l’aspirazione di un popolo all’indipendenza), aveva al fondo un’illusione e un malinteso: l’idea che la Grecia di allora fosse l’erede diretta della Grecia di Pericle, senza tener conto di una frattura che oltre due millenni di storia avevano provocato. La questione della lingua è rivelatrice: mentre tra la lingua letteraria e la lingua popolare (dimotikì) si era creato un abisso, alcuni puristi proponevano di continuare a usare la lingua di Platone. Per decenni vi furono tumulti e scontri (anche con morti), perché la gente scendeva nelle strade per manifestare contro i tentativi di adeguare la nuova realtà linguistica alle opere del mondo antico.
Il tema della posizione della Grecia nell’Unione europea deve tenere conto di molte coordinate di carattere storico e culturale che rendono complicato il problema. Nel discorso al Parlamento tedesco Benedetto XVI ha detto con parole molto chiare che «la cultura dell’Europa è nata dall’incontro tra Gerusalemme, Atene e Roma – dall’incontro tra la fede in Dio di Israele, la ragione filosofica dei Greci e il pensiero giuridico di Roma. Questo triplice incontro forma l’intima identità dell’Europa». Ma che significa questo per la Grecia di oggi? Quello delle benemerenze culturali non può essere, da solo, un punto di partenza plausibile: in una società per azioni come in un condominio, è la consistenza del pacchetto che si ha in mano a determinare le decisioni, non gli eventuali meriti culturali. Da questo punto di vista la Grecia di oggi è sicuramente in sofferenza rispetto ad altri Paesi dell’Unione. Proponiamo però una riflessione che si basa su due concetti.
Se le radici greche sono innegabili, è altrettanto vero che l’albero è stato rinvigorito da altri apporti (Roma, il Cristianesimo, la sintesi romanzo-germanica). La Grecia ha posto le radici, ma poi è rimasta ai margini di questo processo di crescita. Fin dall’Ellenismo essa ha avuto un ruolo secondario. Al dinamismo e alla creatività della fase classica è subentrato un lungo periodo di passività e di stasi, che solo in anni recenti sembra lasciare spazio a un rinnovato fervore.
Il secondo punto è ancora più problematico. Rispetto alla grande tradizione della cultura europea così definita, con tutto il suo bagaglio secolare di riflessione, di vivacità, di perenne capacità di ridiscutersi e mettersi alla prova riconoscendo il positivo del proprio passato e adattandolo alle rinnovate esigenze di una società in continuo movimento, come si pone oggi l’Europa, intesa non come entità geografica, ma come organismo politico-culturale ed economico? L’impressione più immediatamente percepibile è quella di una deliberata volontà di segnare uno stacco e di rinnegare l’eredità culturale del nostro continente.
L’attuale Europa politica ha una posizione di diffidenza, se non di aperta ostilità per le basi culturali a cui fa riferimento il discorso del Pontefice. Nella redazione della carta costituente europea non solo si preferì eliminare ogni accenno alle radici cristiane, ma si censurò anche Tucidide. Il carattere punitivo dei provvedimenti economici imposti alla Grecia e l’insensibilità dimostrata per le conseguenze politico-sociali di tali provvedimenti potrebbe avere tra le sue motivazioni anche questa scarsa simpatia per l’eredità greca.
In questo contesto è da chiedersi se un’eventuale uscita della Grecia dall’Ue non potrebbe avere conseguenze benefiche per la Grecia stessa, che sarebbe incentivata a riannodare un legame con la sua tradizione e il suo straordinario bagaglio culturale, non nel senso di un nostalgico e astorico vagheggiamento di un passato lontano e irrecuperabile, ma nella prospettiva di una rinnovata valorizzazione verso una sintesi tra l’eredità del passato e le esigenze della realtà moderna.