Ma il futuro è veramente già scritto? È il problema fondamentale sul quale si è arenata ogni prospettiva sociologica, dai primi del novecento in poi. Che il libro di Ulrich Beck, L’amore a distanza. Il caos globale degli affetti (un testo che addita i fenomeni più che valutarne l’effettiva estensione) inquadri uno spicchio della società contemporanea non c’è dubbio, ma che le nuove geografie famigliari durino e si espandano è proprio ciò che i fenomeni descritti da Beck sembrano mettere implicitamente in discussione. Il mix culturale, la flessibilità della distanza, la praticabilità effettiva delle opportunità che sembrano offerte dalla società globale, fanno qui emergere tutti i loro limiti. Le mille risorse offerte dalla “compressione dello spazio” che riduce ad una notte di volo le incalcolabili distanze di trent’anni fa, i dialoghi su skype che nascondono le distanze reali e, all’opposto ma nell’ambito della stessa illusione, le convivenze multiculturali nel clima soft del college che maschera le differenze reali tra modi diversi di leggere la realtà, di organizzare il quotidiano e farvi ordine, costituiscono altrettante situazioni destinate a mostrare, a breve, tutti i loro limiti. Questo è il risultato ultimo della narrazione di Ulrick Beck. Non è quindi sull’estensione delle possibilità di lavorare (vivere, amare ed amarsi) a migliaia di chilometri di distanza, quanto sulla sua sostanziale impraticabilità che c’è da riflettere.



Paradossalmente è proprio la prossimità reale, quella provocata dalla riduzione verticale delle distanze, assieme all’omologazione dei modelli di consumo ad essere qui messe sotto accusa in quanto, nascondendo le differenze reali sotto la superficie dell’indistinto globale, fanno sì che le diversità culturali esplodano all’improvviso. Un’esplosione tanto più inattesa quanto più la compressione delle distanze e l’omologazione di consumi e atteggiamenti ne avevano celato la dimensione reale. Allo stesso modo è l’illusione di skipe ad essere chiamata in gioco, quella della conversazione telematica che, simulando la prossimità, maschera il dolore dell’assenza (rinvio alla lettura del testo di Jonah Lynch Il profumo dei limoni).



Occorre prendere per intero la misura di una tale trappola alla quale siamo tutti esposti. Attraversare l’oceano ai primi del novecento, ma anche il contare le stazioni in un viaggio interminabile tra Palermo e Stoccarda o tra Lecce e Parigi negli anni sessanta, consentivano di prepararsi alle differenze che si sarebbero incontrate nei luoghi di arrivo: differenze misurabili nei modi di gestire, di percepire, di ordinare il quotidiano, di gerarchizzarne i piani attraverso il metro di altre priorità, di altri valori di riferimento. Le diversità di lingua, di abbigliamento e di cucina costituivano altrettanti segnali che avvisavano, segnalavano la presenza di un altrove non immediatamente riducibile al proprio universo percettivo e valoriale. Le diverse culture erano fruibili solo attraverso la mediazione di uno spazio fisico che, segnando la distanza, dava la misura dell’altro ed avvertiva della sua irriducibilità. Allo stesso modo, questa stessa distanza proclamava il peso della lontananza, dava la misura reale dell’assenza: essere lontani era una realtà innegabile.



Attualmente proprio la riduzione dei tempi, l’omologazione dei consumi, la stessa indifferenza degli scenari urbani cospirano nel suggerire una quieta abolizione del problema. Le culture sembrano equivalenti ed intersecabili l’una con l’altra, mentre le connessioni internet alimentano l’illusione di una prossimità reale. Dolori privati e nuove solitudini si nascondono sotto il tappeto di un volo low cost a portata di mano o di una videotelefonata dal proprio computer. Esattamente come differenti architetture dell’esistenza sembrano rendersi invisibili sotto il fumo dei consumi di massa uguali per tutti, dei gusti di tempo libero che vi si ricollegano e dei legami affettivi che, nell’ingenua cornice di un ottimismo evergreen, vi prendono forma.

Una tale illusione circa la riduzione delle distanze e l’annullamento delle differenze (due lati della stessa medaglia) non si sarebbe mai affermata se non fosse stata preceduta ed accompagnata da un primato della razionalità strumentale che contrassegna il pensiero contemporaneo dominante. L’idea che le culture costituiscano degli insiemi privi di razionalità, trasmessi solo dall’abitudine e quindi perfettamente flessibili e trasformabili a seconda delle scelte personali, è in qualche modo l’errore principale al quale ci si espone. E non stupisce che, come scrive Concita De Gregorio scrivendo di Beck su Repubblica, sia proprio la giovane coppia di laureati, inglese lei e indiano lui, a credere in una tale illusione ed impattare con le differenze culturali: alla London School of Economics sono in troppi ad avere rapidamente ritenuto che lo studio delle culture potesse essere rapidamente accantonato per far posto ai nuovi sistemi di calcolo dei tassi di crescita.

Ovviamente nessuno è destinato a credere all’infinito nelle illusioni di skype e negli stereotipi della cultura globale. È abbastanza probabile che conoscenze culturali reali e nuovi livelli di consapevolezza, alimentino a breve una nuova attenzione a ciò che definisce e caratterizza ogni universo culturale, prendendone atto della logica interna e della relativa impermeabilità al cambiamento. È altrettanto probabile che si alzi ulteriormente la soglia dell’importanza alla persona, per la quale un’immagine video non sostituisce la presenza e vivere altrove presenta comunque costi umani reali. In un caso come nell’altro si tratterà di emanciparsi dalle illusioni della globalizzazione, riprendendo la misura delle differenze, il peso delle distanze e quello delle assenze. Sarà sempre più chiaro come una prossimità fisica possa mascherare una lontananza culturale, esattamente come una prossimità telematica possa illudere sulla distanza reale. In un caso come nell’altro sarà chiaro come sia proprio la totalità della persona a mancare e la vicinanza sia, in tutti e due i casi, solo apparente.

Se la globalizzazione alimenta illusioni, non siamo affatto obbligati a prenderle per delle verità. Il futuro non è affatto già scritto, lo si può ancora costruire. In un altro modo.